Qo 1,12-18: ho esplorato e ho cercato
Indice
12Io, Qoèlet, fui re d’Israele a Gerusalemme.
13Mi sono proposto di ricercare ed esplorare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo.
Questa è un’occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché vi si affatichino.
14Ho visto tutte le opere che si fanno sotto il sole, ed ecco:
tutto è vanità e un correre dietro al vento.
15Ciò che è storto non si può raddrizzare
e quel che manca non si può contare.
16Pensavo e dicevo fra me: «Ecco, io sono cresciuto e avanzato in sapienza
più di quanti regnarono prima di me a Gerusalemme.
La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza».
17Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza,
come anche la stoltezza e la follia,
e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento.
18Infatti: molta sapienza, molto affanno;
chi accresce il sapere aumenta il dolore.
Qoèlet Salomone – Presentandosi come «Salomone» (v. 12), Qoèlet intende esplorare e conoscere l’intero ambito dell’esperienza umana, giungendo a vedervi un compito dato all’uomo da Dio stesso (vv. 13-14). Ma in questa ricerca il Qoèlet scopre di doversi confrontare con dei limiti precisi; nessuna attività umana, infatti, potrà veramente cambiare la realtà (v. 15) e nessuna sapienza o conoscenza potrà trovare il vero senso della vita (vv. 16-17); accrescere la sapienza significa accrescere il dolore (v. 18); qui sta l’apparente assurdità dello sforzo umano, che proprio per questo è definito una «occupazione gravosa».
Ma il Qoèlet non si sottrae a questo sforzo di ricerca: egli sa, infatti, che la sapienza resta un valore per l’uomo (2,13-14): c’è dunque la convinzione che la sapienza sia una via efficace, ma che allo stesso tempo non riesca a dare all’uomo le risposte che egli va cercando. Eppure, per il Qoèlet, vale la pena di cercare.
Nei vv. 13-15 è contenuto il punto di partenza che apre le riflessioni di Qoèlet sull’esperienza vissuta da «Salomone».
La dedizione alla ricerca – La decisione di dedicarsi alla ricerca risponde alla domanda posta all’inizio del libro (1,3) ed è illustrata da due verbi: «esplorare» e «cercare». Il primo ha il significato di «esplorare» ciò che è ignoto e spesso è usato nella Bibbia in contesti molto pratici, come il caso degli esploratori chiamati ad addentrarsi nella terra promessa, citati in Nm 13,2.16.17: Qoèlet lo assume risignificandolo come verbo di una conoscenza basata sull’esperienza.
Il verbo «cercare» ricorre solo qui nel libro, mentre è piuttosto frequente all’interno della Bibbia ebraica dove indica di solito la ricerca di qualcosa di noto, spesso Dio o la Torah (la «Legge»).
Attraverso i due verbi Qoèlet comprende l’intera possibilità della ricerca, ciò che è ignoto e ciò che è noto.
Osservare la realtà a partire dall’esperienza personale – L’espressione «Io Qoèlet..» tradisce uno stile decisamente inconsueto per un autore antico. Qoèlet parla in base alla propria esperienza personale, ma si differenzia da altre esperienze. Non è la visione profetica rivelata dall’alto, ma l’acquisizione della esperienza verificata a proprie spese, attentamente meditata. Si tratta di una radicale individualizzazione dell’osservazione sapienziale, focalizzata quanto più esplicitamente possibile a partire dal proprio osservatorio, a differenza di quanto avveniva nella tradizione.
Il tutto non è la totalità dell’universo – «Il tutto» è definito dall’articolo determinativo, a specificare quindi «questo tutto». Di quale «tutto» si tratta? Esso è circoscritto in quanto ha per oggetto l’attività degli uomini sotto il sole. Ma è anche quel tutto che Qoèlet riesce a vedere dal proprio limitato punto di vista. È il «tutto» secondo Qoèlet.
Dio non è escluso, ma come è coinvolto? – Nel finale del v. 13 l’autore afferma che è Dio ad aver assegnato tale compito all’uomo. Per la prima volta viene nominato Dio, che non interviene tuttavia con una parola, come del resto accade nel resto del libro. La sua esistenza è affermata e il suo agire è posto in relazione al conoscere umano che non appare più come espressione della sola volontà umana, ma come un compito dato da Dio stesso. È dunque volontà di Dio che l’uomo esplori la realtà.
Il v. 14 ripete in parte quanto già detto, aggiungendo alcuni elementi significativi. Il versetto si apre con il verbo «vedere», che indica un’osservazione concreta, secondo una linea tipica della tradizione sapienziale di Israele, escludendo considerazioni frutto di ragionamento.
Il giudizio di Qoèlet su quanto ha sperimentato riprende ciò che ha già affermato nella prima parte del capitolo: «tutto è hebel/soffio», a cui aggiunge «un inseguire il vento», che sottolinea ulteriormente la dimensione di effimero e di inconsistenza.
Il compito dato da Dio di voler «esplorare e cercare», di voler trovare il senso della propria attività appare a Qoèlet un soffio e un inseguire vento, qualcosa che sembra non aver mai fine. Il v. 15 comincia a rispondere al perché di un tale esito.
Qoèlet accetta che vi siano distorsioni e carenze nel mondo di cui solo Dio è responsabile e sulle quali l’uomo non può intervenire a modificare qualcosa. Proprio per questo lo sforzo di cercare, esplorare e vedere conduce alla conclusione negativa del v. 14.
Dopo tale conclusione, Qoèlet introduce il lettore in un dialogo interiore: «pensavo e dicevo fra me» (v. 16), nel senso di pensare e di riflettere, ma i suoi pensieri sono rivolti al suo pubblico. Il dialogo inizia con un «eccomi», una formula che ricorre ancora nella Bibbia ebraica in Gen 17,4; Es 31,6; Nm 3,12; 18,6.8; Ger 1,18, sempre in bocca a Dio, al punto che si potrebbe pensare che qui ci sia la volontà di imitare tale modo di parlare divino ed è forse possibile cogliere un tratto ironico in tale modalità imitativa. Cosa vuol dire? Che questo soliloquio reso pubblico, è possibile a Dio, ma in bocca ad un uomo può avere un sapore molto ironico, perché non c’è proporzione tra lui e Dio. In effetti atteggiarsi da re o da Dio, è sempre la medesima cosa se vista come modo con cui l’uomo si pensa capace di avere il controllo totale delle cose e della storia. Una esistenza autoreferenziale è qualcosa di normale per chi esercita potere, ma probabilmente in questo si nasconde un tranello, un gioco di ruoli insostenibile. Come posso pretendere di fare la parte di Dio? Ecco allora la risposta ironica dei vv. successivi.
L’andamento del pensiero dei vv. 16-17 mette in evidenza che Qoèlet non ritiene inutile la ricerca della sapienza e della conoscenza, ma lo sforzo compiuto dall’uomo nel tentativo di raggiungerla, di diventare grande accrescendo il sapere. È questa inutilità e la percezione dei limiti della sapienza, mentre invece si vorrebbe conoscere tutto, che fa sperimentare il fastidio e il dolore (v. 18).
Qo 2,1-26: la parodia regale
21Io dicevo fra me: «Vieni, dunque, voglio metterti alla prova con la gioia. Gusta il piacere!».
Ma ecco, anche questo è vanità.
2Del riso ho detto: «Follia!»
e della gioia: «A che giova?».
3Ho voluto fare un’esperienza: allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia,
pur dedicandomi con la mente alla sapienza.
Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini
che essi possano realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita.
4Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti.
5Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d’ogni specie;
6mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita.
7Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa;
ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero,
più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme.
8Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province.
Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini.
9Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme,
pur conservando la mia sapienza.
10Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano,
né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica:
questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche.
11Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani
e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle.
Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento.
Non c’è alcun guadagno sotto il sole.
12Ho considerato che cos’è la sapienza, la stoltezza e la follia:
«Che cosa farà il successore del re? Quello che hanno fatto prima di lui».
13Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza
è come il vantaggio della luce sulle tenebre:
14il saggio ha gli occhi in fronte,
ma lo stolto cammina nel buio.
Eppure io so che un’unica sorte è riservata a tutti e due.
15Allora ho pensato: «Anche a me toccherà la sorte dello stolto!
Perché allora ho cercato d’essere saggio? Dov’è il vantaggio?».
E ho concluso che anche questo è vanità.
16Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo
e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato.
Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.
17Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole.
Tutto infatti è vanità e un correre dietro al vento.
18Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole,
perché dovrò lasciarlo al mio successore.
19E chi sa se questi sarà saggio o stolto?
Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità!
20Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica
che avevo sostenuto sotto il sole,
21perché chi ha lavorato con sapienza,
con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte
a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.
22Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica
e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?
23Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi;
neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!
24Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche;
mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio.
25Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui?
26Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia,
mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare,
per darlo poi a colui che è gradito a Dio.
Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!
Un sapiente travestito da re – La figura regale, con cui si apre il libro (1,1) e con la quale l’autore si identifica espressamente in 1,12, è correlata a quella del sapiente in 1,16-17; 2,3.19-21. Anche se a partire dal cap. 3 Qoèlet non rivendica più esplicitamente lo statuto regale, la «finzione regale» conserva un ruolo comunicativo ed interpretativo decisivo, il cui significato si risolve definitivamente solo in 12,9-12. In questa finale del libro infatti si comprende come la relazione re-sapiente non va intesa nel senso che Qoèlet sia un re che cercava di essere sapiente, ma sia un sapiente che si finge re per cercare la sapienza. Se Qoèlet si è finto re di Gerusalemme, lo ha fatto in piena fedeltà alla sua funzione di sapiente e di istruttore del popolo (12,10). La maschera regale sta al servizio dell’effettiva possibile sapienza e non viceversa.
Resta pertanto da indagare per quale ragione Qoèlet si finga re davidico e quale sia lo scopo e il senso di tale travestimento.
Perché fingersi re? – Innanzitutto, sarebbe più corretto tradurre l’espressione di 1, 12, «fui re», con il presente «sono re». In questo modo si ottiene subito un effetto comico dal momento che Israele e Gerusalemme non hanno più un re dall’epoca esilica; l’identificazione con Salomone assume pertanto un tono caricaturale; Qoèlet intende apparire molto affine al celebre re, attraverso il motivo di una sapienza unica, superiore a tutti, senza tuttavia raggiungere una perfetta identificazione.
La maschera regale assume perciò anche la funzione di satira rispetto ai contemporanei modelli di regalità, dominanti in Egitto in epoca tolemaica, per interagirvi criticamente come un antimodello.
Qoèlet assume tale maschera in riferimento alla convinzione universale secondo la quale il re è il modello per eccellenza di uomo.
Un confronto con Giobbe – Si assume una figura, qui quella del re, che rappresenta pertanto il massimo di una realizzazione esistenziale. Questa volta non è la vicenda di un giusto benedetto, a giudizio del narratore e di Dio stesso, Giobbe il più grande, giusto e integro dei figli dell’oriente (Gb 1,3.8; 2,3), a essere indagata, ma la figura di colui che nell’immaginario universale è ritenuto l’uomo perfettamente libero, l’unico presunto in grado di assecondare l’insaziabilità di ogni proprio desiderio (1,8; 2,10; 6,7). La figura regale rappresenta la messa in scena dell’eccesso, del desiderio alla deriva.
Mettersi nei panni di chi può permettersi tutto – La figura regale in apertura di libro offre quindi un modello di successo, allettante per il lettore, soprattutto quello giovane, destinatario abituale della letteratura sapienziale (cfr. Pr 1,1-6). Questa presentazione ha lo scopo di preparare una istruzione e configurazione del desiderio. In tal modo il lettore, attraverso la costruzione di un percorso che va dalla pretesa illusoria (1,12–2,11), alla sua decostruzione (2,12-22), fino a un realistico ridimensionamento (2,24-26), ha davanti a sé un efficace modello di immedesimazione che produce una conversione, una purificazione: «se tocca al sapiente re Qoèlet decostruirsi e ridimensionarsi, a maggior ragione anche a me …». Con questo processo di identificazione si innesca la possibilità di misurarsi sul modello di uomo da un lato da abbandonare (sogno di regalità) e dall’altro da assumere (val meglio accettarsi come creatura mortale, giorno per giorno gratificata dal dono di Dio).
Un sovrano che colleziona insuccessi – Notiamo pure una sottile ironia rispetto alle steli celebrative dei re antichi. Attraverso questa autopresentazione ogni sovrano si autocelebrava consegnando a futura memoria tutte le proprie imprese, vantate come inedite e insuperabili, appunto per la serie «io anzitutto, e il solo rispetto ai miei predecessori» (cfr. Qo 1,16; 2,7.9). Tuttavia, qui il genere subisce una distorsione autoironica perché il gran re Qoèlet celebra quelli che lui stesso denuncia come i propri insuperabili fallimenti. Ciò che risulta nuovo è che un re parli in prima persona, non per accusarsi di una qualche colpa (cfr. 2Sam 11-12; Sal 51; Is 38,9-20), ma per lasciare un memoriale autocritico del proprio operato. Qoèlet non sta criticando i re del passato, ma la funzione del re che pensa di poter vivere un tipo di esistenza dove sia possibile ogni cosa, dove il successo sia assicurato, dove ogni desiderio dovrebbe essere esaudito.
Il cuore del re – Il vero referente di questa autobiografia più ancora del pur frequente «io» di colui che racconta, è «il mio/il proprio cuore», che il re impiega da subito nella sua ricerca sapienziale su tutto quanto si fa sotto il cielo (1,13).
Il cuore di Qoèlet ha una funzione letteraria perfino strutturante. Su di esso Qoèlet agisce, dedicandolo alla ricerca della sapienza (1,13.17); con lui abitualmente parla (1,16; 2,1.15), attraverso di esso vede (1,16); nel proprio cuore ricerca (2,3); o si rallegra (2,10); al proprio cuore non nega nulla (2,10) e sempre il cuore viene rivolto al ripensamento complessivo delle proprie imprese (2,20). Tuttavia, una volta che è stata messa a nudo tutta la fragilità della pretesa regale, incapace di innalzarsi sopra la condizione mortale (2,12-21), il «cuore» non è più attribuito al re Qoèlet, ma all’uomo in genere (da 2,22-23 invece che «mio» si dice «il suo»). In questo senso «la finzione regale è una chiave di accesso alla realtà del cuore e alla realtà dell’uomo davanti a Dio […] e alla fine il re è solo un uomo, una creatura bisognosa, un mendicante che vive della grazia di Dio, identificata nel materialissimo mangiare e bere» (Lux).
Il pensiero alla morte – Il testo consente di mettere a fuoco la ragione ultima della crisi attraversata dal re. Essa è riconducibile alla morte, la cui presenza viene adombrata non solo nello hebel habalim, «soffio, assolutamente soffio» (1,2), ma anche dietro alcune sentenze sapienziali (1,15-18) e nelle allusioni alla brevità dei giorni dell’uomo (2,3.23). Inizialmente il pensiero della morte sembra rimosso a motivo della esaltante impresa di ricerca. Il progetto intrapreso mirava a garantire a Qoèlet un’immortalità intelligente (1,16-17), piacevole (2,1.3.10), monumentale (2,4-11), come se il re volesse auto costruirsi una condizione vincente sulla morte.
Proprio nella morte sta la ragione del risentimento con cui Qoèlet reagisce alla sola idea di avere un successore (2,17-21); la profonda passione di Qoèlet per la vita si capovolge in una sorda e duplice detestazione: quella appunto contro la vita in genere («io ho odiato la vita …»), e quindi quella più specifica contro il suo stesso personale operato («ho odiato ogni lavoro delle mie mani»). L’ammissione della sostanziale uniformità di tutte le imprese regali manda una prima avvisaglia di crisi, in quanto si comincia a capire che una singolarità assoluta è due volte impossibile, poiché l’uomo non ha alcun potere né sul proprio successore e tantomeno sulla morte con cui gli cederà il posto. Viene così smascherata e ridimensionata l’illusione dell’uomo che pretenderebbe di essere «l’unico proprietario di se stesso e l’unica fonte della propria azione».
Per tutti vi è la medesima fine – La seconda più sostanziale e umiliante ragione è la scoperta di una stessa fine per tutti (2,14-15) ben più inesorabile nel frustare ogni pretesa di singolarità. Quale unico destino in sorte al saggio come allo stolto, la morte smentisce non solo le aspettative di Qoèlet, ma anche l’impianto retribuzionistico tradizionale.
In 2,24-26 Qoèlet smette lui stesso i panni regali e accetta quelli comuni, proponendo un modello antropologico totalmente diverso rispetto a quello iniziale progettato e subentra l’accettazione della propria semplicissima e più comune condizione umana, gratificata dal dono di Dio. La conclusione di questa decostruzione autobiografica non assomiglia a un trionfo, non porta su qualche impresa straordinaria, ma sulla comune possibilità di mangiare, bere, soddisfarsi delle proprie fatiche, concessa a tutti e teologalmente interpretata (2,2.24-26). La novità di questo codice simbolico sta nella ordinaria e universale condizione umana, riscoperta in un orizzonte teologale di gratuità.
Essere creature: mangiare e bere – Nel recupero della dimensione più semplice del mangiare e del bere e godere delle fatiche come dono di Dio, infatti, Qoèlet ritrova la dimensione creaturale teologale dell’esistenza umana. Nella possibilità di soddisfare il bisogno si offre una misura e una forma del desiderio, ma in questo quadro, più che le piccole gioie della vita, affascina Qoèlet il miracolo dell’esistenza ad esse consegnato.
La scoperta della gioia e del piacere di 2,24 si differenzia sensibilmente da 2,2, dove invece il consenso incondizionato prestato al proprio desiderio non consentiva di esperire il piacere come dono di Dio. Inoltre, anche se l’idea del dono di Dio che nutre paternamente le sue creature è ben nota nella Bibbia (cfr. Sal 104; 136), tuttavia solo Qoèlet parla teologalmente del «mangiare e bere» come dono di Dio», riconoscendolo quindi primo custode e garante della più elementare felicità dell’uomo e quindi promuovendo un netto e temperato godimento della vita.
Gioia e vita come dono – Invece di uno spasmodico avere/produrre in nome dello stretto guadagno (1,3) esposto al suo stesso dissolvimento (2,11), riemerge un’originaria e irriducibile donazione di grazia teologale legata alla più comune dimensione antropologica, apprezzata nella sua creaturalità. La felicità non è una modalità dell’avere, determinata da alcune condizioni di possibilità, ma dell’esperienza.
Essa non consiste nel possesso dei tradizionali segnali della benedizione (possesso, ricchezza, riconoscimento sociale, discendenza, lunga vita), di per sé non identici all’esperienza della gioia. In nome dell’esperienza, della gioia, attinta all’esistenza sostentata, goduta e interpretata come grazia divina, rispetto alla quale Dio non è solo il donatore, ma anche il garante del suo stesso godimento. La gioia non è un guadagno, ma un dono gratuito, non relativizzato.
La parola alla comunità
Adesso iniziamo a comprendere il punto di vista di questo personaggio. Anzi, Qoèlet ci sta diventando più attraente, siamo disposti a continuare a essere fedeli al suo invito di «convocazione», visto il suo nome.
Forse proprio questo suo modo di porsi non è poi così lontano dal nostro mondo … ci sentiamo capiti, per lo meno abbiamo trovato un interlocutore che possa competere con le fatiche e le contraddizioni del nostro mondo.
Ci stiamo abituando alla possibilità dell’ironia, non come rassegnazione ma come rilettura, ricomprensione delle cose, della vita, di ciò che ci circonda. Prendere le cose con ironia ci permette di scoprire un lato diverso della realtà e dar credito a nuovi punti di vista. Ci pare che sia inevitabile un passaggio della vita: affrontare le paure, riconoscerle, dargli un nome; scoprire insomma che siamo umani, che non tutto dipende da noi, che possiamo non sapere tutto e non controllare tutto … «legittimarci» il fatto che ci possa capitare qualcosa che non abbiamo programmato e scelto noi, ma che ci è donato.
Ci sentiamo più a nostro agio, come se ci venisse concesso di uscire da una «sofferenza silenziosa», paurosi di esprimerla. Invece possiamo comunicare agli altri e a noi stessi che possiamo fallire: fa parte di un percorso di vita che ci rende più umani.
Dentro il nostro cuore coltiviamo il bisogno di sciogliere le paure. Anche l’ironia può costituire un punto di vista per guardarle in un modo creativo: un modo diverso di riconoscerle e affrontarle.
Temiamo di apparire imperfetti anche come comunità cristiana, come Chiesa, di farci vedere umani e di fallire.
Non ci rendiamo conto che un nostro limite può essere una ricchezza al servizio della comunità.
Queste parole suscitano speranza e stupore: Qoèlet sembra un precursore dei suoi tempi nello scrivere in modo cosi diretto, con quella sottile ironia sferzante e stimolante nell’affrontare le situazioni; dal confronto con questo percorso emergono parole come: ottimismo, pace, accettazione della fatica e della gioia, meno spazio all’angoscia, e possibilità di interiorizzare la realtà anche negativa come parte di me; la stessa solitudine è sostenuta nel cammino per andare comunque avanti, possibilità di porsi delle domande anche sbagliando con l’obiettivo di crescere, riconoscere il fallimento, essere nudi tanto da poter fallire, essere LIBERI di ricercare e rileggere la propria vita, possibilità di prendere con ironia le difficoltà che si incontrano, relativizzandole.
Va denunciato il rischio di pensarci capaci di cambiare la realtà, di esercitare un potere «da sovrani» su di essa, per adattarla alle nostre esigenze, mentre comprendiamo quanto sia importante «stare dove sono» e «non fuggire in una realtà che non esiste, nemmeno crearla» ma trovare nella realtà già consegnata ogni giorno la risposta, l’opportunità, il senso, la regalità.
Di fronte al fallimento cosa fare? Esplorare e cercare: non accontentarsi assumendo gli atteggiamenti di chi si rassegna, ma aprirsi al confronto con gli altri, lo spirito critico, l’autocritica, la riflessione, l’interrogarsi, lo studiare e ricercare anche la conoscenza per discernere e scegliere.
Anche il fallimento in campo lavorativo (esempio, delusioni, amarezze, il non trovare lavoro, o il lavoro dei propri sogni) può diventare motore per la ricerca, per riconoscere i nostri limiti (certi lavori non possiamo permetterceli) ma anche le nostre possibilità, per metterle a frutto, impegnandoci e combattendo.
L’alternativa a vivere il fallimento è la rassegnazione al fallimento, la passività, la non voglia di lottare, che fa stare male, fa dispiacere, sia se vissuta in prima persona sia se vista negli altri.
Prendiamo ad esempio una persona che lavora per un’azienda informatica. A cosa serve aumentare la produttività e i risultati senza dare attenzione alle relazioni? A cosa serve lavorare dodici ore al giorno?
Qoèlet sembra smascherare logiche mondane dentro le quali siamo invischiati, di cui ci lamentiamo, ma di cui magari non conosciamo l’inganno. Non ci viene chiesto di rinunciare a lavorare, ma di adottare un diverso modo di stare nel sistema lavorativo.
Un altro esempio che viviamo dentro le nostre comunità: l’animatore degli adolescenti. A cosa è servito fare tante attività per attirare adolescenti e trovarsi in pochi? È un fallimento? O forse Qoèlet ci fa vedere il lato positivo: nulla di nuovo sotto il sole, c’è una dimensione umana che va accolta per quello che è.
Le logiche del mondo hanno bisogno di essere scardinate dalla parodia, dall’ironia, come «la produttività e il fare» a scapito della gratuità e della condivisione. L’ironia può aiutarci a passare dall’ansia della quantità delle cose da fare e ottenere, alla quiete della qualità della vita. Questa ironia ci rilassa.
Qoèlet dice: «ho esplorato e ho cercato». L’ascolto vale molto di più delle attività.
Qoèlet parla del re come sono le persone di successo ai nostri giorni, ma di un successo apparente, che illude.
Scardina il modello del suo tempo, lo mette a nudo! Oggi far finta di essere modelli, perfetti, ci disumanizza.
Almeno nelle nostre comunità non ci sia una logica di meritocrazia: tutti possano avere il proprio posto così come sono!
Una parola per te
Ti sei accorto quanto tutto questo discorso dedicato al re nasconde molta ironia: il testo nasconde questo sottile segreto, se lo condividi con chi l’ha scritto, ti sentirai più a tuo agio nella lettura di altri brani, vedrai. Lo stesso Qoèlet è il primo a non prendersi troppo sul serio! Questo dovrebbe aiutarti a ricomprendere i sentimenti che hai avuto durante la lettura delle prime pagine (p. 10). Spero che Qoèlet diventi un tuo amico con cui vale la pena intavolare una discussione su cose importanti della vita. Il suo punto di vista non è così banale e non è così scontato.
Ad. esempio il tema del «successo». Come lo immagini dopo questa parodia? L’«ironia» di Qoèlet che si finge re come può aiutarti a rileggere il modo con cui hai sempre sognato di realizzarti? Il modo con cui hai pensato il tuo lavoro? La tua carriera? La tua posizione sociale?
Fonte: Diocesi di Verona
Commento biblico:
prof. Don Martino Signoretto e prof.ssa Suor Grazia Papola