Il commento al Vangelo del 22 Maggio 2019 a cura dei Dehoniani.
S. Rita da Cascia, religiosa (memoria facoltativa)
V settimana di Pasqua – I settimana del salterio
La vite vera
Tra le tante immagini che la Scrittura utilizza per esprimere il dono che Dio fa all’uomo, quella novità e quella gratuità che scaturiscono dalla condivisione con la sua stessa vita, forse una delle più usate e più evocative è l’immagine del vino, dell’uva, della vite, della vigna. Quante volte i profeti ritornano su questo simbolo per esprimere ciò che Dio desidera donare all’uomo, ciò che Dio attende dall’uomo.
Anche Gesù usa questa immagine per rivelare la novità dell’evangelo, la pienezza di vita che esso contiene. Anzi Gesù l’applica a se stesso: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore» (Gv 15,1). Gesù è quella vite che può rispondere in pienezza alle attese di Dio, quel germoglio che docilmente si lascia piantare nella terra dell’uomo e che produce un frutto che rimane per sempre; da quel frutto ogni uomo potrà trarre il vino nuovo della gioia perché da quel frutto sgorga la vita.
Ma Gesù, rivelandosi come la vite vera, aggiunge subito un particolare sul quale si sofferma a lungo, un particolare che ci coinvolge direttamente. «Io sono la vite»: è lui l’albero che affonda le radici nel terreno, che trasmette la linfa, che cresce e si irrobustisce, che permette ai grappoli d’uva di maturare ed essere raccolti. Ma «voi [siete] i tralci» (15,5): noi facciamo parte di quest’albero, facciamo parte di questo dono che Dio fa all’umanità, anzi siamo un tutt’uno con esso. La vite porta il frutto, ma questo frutto siamo noi a donarlo al mondo. Ed è proprio su questo che Gesù vuole farci riflettere.
Non si accontenta di comunicarci tutta la novità di ciò che egli è per il mondo, di ciò che egli dà al mondo. Vuole farci comprendere che noi, come discepoli, siamo profondamente coinvolti con lui, apparteniamo a questa unica vite, siamo addirittura i portatori del frutto della vite. Ma tutto ciò è possibile a una condizione essenziale: rimanere in lui. Sette volte ritorna questo verbo nel nostro brano. Che cosa vuol dire rimanere in lui? Se un tralcio non rimane attaccato al tronco della pianta, non solo non porta frutto, ma la vita che ha in sé muore: il tralcio si secca.
Essere parte della pianta è dunque la condizione per vivere, per donare la vita. Per il discepolo questo significa riconoscere la verità della propria esistenza: non abbiamo la vera vita in noi, ma la riceviamo continuamente come dono da Gesù, come la linfa che scorre tra le pieghe più nascoste del nostro essere e ci rende fecondi. Senza questa forza, quella forza che poi ci viene comunicata nel dono dello Spirito, senza di essa non possiamo far nulla.
Da soli possiamo fare tante cose, piccole o grandi, ma senza la vita che Gesù ci dona sono nulla, cioè sterili, incapaci di fecondarci e di fecondare. Ecco perché Gesù aggiunge: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (15,5). Essere radicati in Cristo, comprendere che solo la comunione con lui permette alla vita divina di entrare nelle pieghe più nascoste della nostra esistenza, non solo è la condizione che ci rende tralci vivi della «Vite vera», ma è ciò che permette di portare il frutto che il Padre attende da noi: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (15,8).
Il frutto è essere discepoli di Gesù, è la scoperta che la vita in Cristo è abbondante, inesauribile, piena di bellezza e di novità. Ma in fondo, non dobbiamo nemmeno preoccuparci troppo del nostro frutto: ci sarà chi alla fine saprà scoprirlo, raccoglierlo, gustarlo. Dobbiamo preoccuparci di rimanere in colui che ci rende fecondi.
Anzi, sempre più fecondi. Ma a una condizione: «Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto» (15,2). La potatura è un taglio per lasciar crescere la vita, perché il frutto maturi buono e sano. È un taglio per la vita, perché c’è anche un taglio per la morte: quello del tralcio che non porta frutto e secca. Come discepoli di Gesù, c’è qualcuno che ci aiuta a liberarci da tutto ciò che impedisce alla vita di espandersi: è il Vignaiolo, che ha cura più di noi della nostra vita e conosce il frutto che dobbiamo portare. A noi è chiesta solo la docilità e la grazia di accettare e di comprendere, anche se non subito e non sempre del tutto, la bontà e la fecondità di questa potatura.
Senza di te, Signore Gesù, non possiamo far nulla. Solo chi rimane in te, porta molto frutto perché solo tu puoi donare quella vita che ci rende fecondi, ci apre al dono, ci trasforma in umili servi della comunione e dell’unità. Tu sei la vite e noi i tralci. Rimani in noi e noi rimarremo in te.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 15, 1-8In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.