Il commento al Vangelo di oggi è a cura dei padri Dehoniani.
XV domenica del tempo ordinario
XV settimana del tempo ordinario
III Settimana del Salterio
In pratica
Ascoltando in questa domenica la parabola del buon samaritano, siamo raggiunti da una grande consolazione: sapere che la «compassione» (Lc 10,33) di Dio non oltrepassa mai con indifferenza la nostra umanità, ma si ferma a versarvi l’olio di un amore che «rinfranca l’anima» e fa «gioire il cuore» (Sal 18[19],8.9). L’esegesi del celebre racconto di Luca è unanime nel riconoscere, in questo samaritano buono e attento, il volto stesso del Signore Gesù il cui sguardo ha così tanto «cura» (Lc 10,34) di noi da mettere in gioco ogni risorsa pur di risollevare il nostro corpo «mezzo morto» (10,30) per riconsegnarlo a una speranza di vita: «Gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo» (10,34).
All’origine di questa sequenza di atti di amore inarrestabile e premuroso, non deve sfuggirci un verbo chiave – «gli si fece vicino» (10,34) – che sembra essere l’istinto di cui non sono capaci né quel «sacerdote», né quel «levìta» che scendevano «per quella medesima strada» (10,31-32) dove stava l’uomo assalito dai briganti, ma che per motivazioni religiose decidono di non contaminarsi e di proseguire con indifferenza il loro cammino. La Legge offerta dal «Dio invisibile» (Col 1,15) a Israele, perché il popolo potesse osservare «i suoi comandi e i suoi decreti» con una disponibilità piena – «con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Dt 30,10) – ammette il grande fraintendimento di poter apparire come una parola troppo distante dalle nostre reali capacità e dalle nostre misure di amore: «Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?» (30,12).
L’esegesi che lo stesso Mosè consegna al popolo riguardo al comando di Dio vuole impedire che il dono della Legge possa essere inteso come un modo per non sentirsi responsabili della vita dell’altro, anziché prendersene cura con viva compassione. Per evitare questo fraintendimento, il libro del Deuteronomio precisa che non esiste nessun motivo – tanto meno pretesto – religioso che possa autorizzarci a non mettere in pratica l’amore frater no quando le circostanze ci «comandano» di esserne interpreti:
«Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (30,14).
La domanda del Maestro non può che apparire retorica, ma in realtà contiene una scintilla di perenne rivelazione: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (Lc 10,36). Ciò che Dio si attende dalla nostra umanità, creata a immagine e somiglianza della sua vita divina, non è l’esecuzione di atti d’amore con cui proviamo a sentirci utili o, persino, indispensabili al prossimo. Molto più semplicemente, Dio desidera che diventiamo capaci di avvicinarci così tanto all’altro da riconoscere nel suo volto – sfigurato dalla sofferenza e dal male – lo stesso mistero di debolezza che in noi cerca e attende salvezza.
Quando dimentichiamo che quell’uomo mezzo morto e mezzo vivo non siamo altro che tutti noi, feriti e abbandonati nel viaggio della nostra vita, rischiamo di diventare indifferenti oppure rassegnati nei confronti della possibilità che la carità di Cristo sia il balsamo capace di riconciliare tutte le cose, «avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20). Nella misura in cui custodiamo la memoria di essere raggiunti da un amore che ci rende non solo capaci, ma persino desiderosi di farci prossimi all’altro, possiamo imparare a fare del viaggio della nostra vita un vero e continuo sacramento di compassione, fino a trasformare i nostri giorni in una condivisione di salvezza, dove ci lasciamo toccare e sensibilizzare da ogni ferita e da ogni dolore come fossero i nostri. Come se, ormai, fossimo tutti un solo «corpo» (1,18), amato e redento.
Signore Gesù, tu metti nel nostro cuore una parola di cui è impossibile dubitare, ma ci resta la paura di avvicinarci all’altro, che ha gli stessi nostri bisogni, la stessa vulnerabilità. Allontana da noi questa paura, che ci impedisce di mettere in pratica l’amore che pure pulsa e preme dalle nostre ferite curate. Suscita in noi il desiderio di amare come siamo amati.
Leggi il Vangelo di oggi
Chi è il mio prossimo?
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 10, 25-37In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
Parola del Signore