Il commento al Vangelo di oggi è a cura dei padri Dehoniani.
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Nella pericope giovannea presente nella liturgia della Parola di ieri ci veniva indicata una dimensione fondamentale dell’esperienza cristiana: il rimanere nell’amore di Cristo, l’essere radicati in quell’amore di Gesù che passa attraverso il dono della vita e ci rivela l’amore stesso del Padre. Oggi, nei versetti che seguono, siamo chiamati a cogliere lo stesso amore in un’angolatura diversa, in un certo senso più «incarnata». L’amore del Padre e del Figlio donato ai discepoli ha un luogo di verifica nella relazione fraterna, ma ad alcune condizioni, che si rivelano anche come la qualità profonda dell’amore fraterno: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. […]
Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 15,12.17). Anzitutto la qualità dell’amore fraterno è data dall’avverbio «come». Qui non si parla di amore in modo generico e neppure delle qualità umane dell’amore. Si parla dell’amore di Cristo per noi («come io ho amato voi»): esso diventa la misura e il criterio di discernimento per l’amore reciproco. E qual è la misura dell’amore di Cristo per noi? Dove sta il «come io ho amato voi»? Gesù lo chiarisce subito: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (15,13). La misura dell’amore di Cristo è il dono della vita, è la croce e, dunque, il dono della vita per gli amici diventa paradigma e appello ai discepoli a essere pronti a compiere la stessa radicalità nel dono.
Questo ci rivelerebbe un’altra qualità dell’amore vicendevole. Certamente il dono di sé è una qualità dell’amore, ma forse qui Gesù, più che proporsi a modello di amore, parla di se stesso, evocando la sua morte come testimonianza suprema del proprio amore. L’assolutezza dell’amore di Gesù per i suoi deve allora motivare la fedeltà quotidiana del discepolo al comandamento dell’amore fraterno. Ma c’è un’altra qualità dell’amore vicendevole che forse ci può sorprendere. Per ben due volte esso è definito «comando». Si può comandare l’amore? Si può legare l’amore all’obbedienza? L’amore richiama una relazione alla pari, reciproca, l’obbedienza invece una sottomissione.
Questa è la nostra reazione immediata alla parola di Gesù. Ma se si guarda più in profondità alla dinami ca dell’amore, si deve ammettere che l’obbedienza dà all’amore una qualità che potremmo chiamare «pasquale». Il dono di sé, la gratuità, qualità fondamentali di un autentico amore, passano sempre attraverso un esodo da sé, una fatica, un’uscita dai propri schemi per obbedire alla realtà dell’altro, alla sua vita, ai suoi bisogni. In verità, obbedienza e amore vanno insieme. «Io farò tutto ciò che vorrai» non significa una parola da subordinato, ma da innamorato. Il volere di colui che si ama diventa la legge dell’amante, scritta nel suo cuore.
Potremmo scorgere infine un’ultima qualità dell’amore vicendevole. Essa è espressa da queste parole di Gesù: «Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando» (15,14). L’amore che lega Gesù e i discepoli è un amore di «amicizia», dunque un rapporto confidente tra persone, un dialogo. E questo rapporto amicale si esprime in tre dimensioni: in un’estrema dedizione (il dono della vita per gli amici), in una confidente familiarità e in una scelta gratuita. L’amicizia di Gesù è un dono che trasforma i discepoli, liberandoli da ogni forma di servitù e donando loro quella libertà e quella vicinanza con Dio che li rende amici di Dio. Se la scelta caratterizza il rapporto di amicizia, tuttavia non rimane chiusa e autoreferenziale.
L’amicizia che connota il legame di Gesù con i discepoli deve essere collocata all’interno del progetto del Dio unico, un progetto universale. Se Dio ha scelto Israele, questa scelta non è per il solo Israele, ma perché esso sia testimone davanti agli altri popoli. È ciò che Gesù dice ai suoi discepoli: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (15,16).
In questa prospettiva l’amore vicendevole esce dal chiuso della reciprocità e si dilata, spinge a una partenza. Ma qual è il frutto che i discepoli devono portare, quel frutto che rimane? Il frutto atteso dai discepoli, il frutto che rende feconda la loro vita è la dilatazione, nel mondo, della loro fede e del loro amore; in essi continuerà a rivelarsi agli uomini l’amore stesso del Padre e del Figlio.
Signore Gesù, tu hai avuto l’umiltà e il coraggio di scegliere ciascuno di noi per farci tuoi discepoli. Hai guardato con misericordia la nostra povertà e l’hai trasformata con il tuo amore. Hai dato la vita per noi e ci hai chiamati amici. Non siamo stati noi a scegliere te; ma fa’ che ogni giorno possiamo scegliere di camminare con te.
Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 15, 12-17In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.