IL BANCHETTO ESCATOLOGICO
Il banchetto è per la Bibbia segno profondo di condivisione e di fratellanza. La famiglia consolida nel pasto comune le relazioni reciproche tra i suoi membri (Sl 128,3; 1 Sam 1,1-8; Gdc 19,4-8). Ma il banchetto è anche momento di legame profondo con altre persone fuori del nucleo familiare. Mangiare alla stessa mensa è stabilire rapporti di comunione: chi condivide il cibo, fonte di vita, si impegna a condividere anche la vita stessa del commensale. Il banchetto è posto quindi a suggello di riconciliazioni, di alleanze ufficiali, di patti di amicizia (Gn 26,26-31; 31,43-54; Es 18,12; Gdc 9,26-29).
Quando Dio vuol esprimere il massimo di unione con l’uomo, nell’Apocalisse, lo fa con un’immagine di banchetto: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Gesù, per esprimere l’intimità con Dio nel Regno, parla del grande banchetto nuziale escatologico, a cui sono ammessi solo quelli con veste candida (Vangelo: Mt 22,1-14), coloro che sono saggi e vigilanti (Mt 25,1-12), e a cui partecipano “molti dall’oriente e dall’occidente, che siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli” (Mt 8,11), anche se “poveri, storpi, ciechi e zoppi” (Lc 14,21).
Il banchetto non esprime solo comunionalità: è segno della festa, dell’allegria. Isaia descrive la gioia del “Giorno del Signore” finale come “un banchetto di grasse vivande, di vini eccellenti” (prima Lettura: Is 25,6). E quando Gesù vorrà esprimere la gioia del Regno, presenterà il futuro dei credenti come un grande banchetto (Vangelo: Mt 22,1-14; cfr 8,11; 25,1-14; Lc 12,35-38; 13,29; Lc 14,15-24): il discepolo sarà invitato a prendere parte a quel convivio che Gesù definisce “la gioia del Signore”: “Bene, servo buono e fedele…: prendi parte alla gioia del tuo padrone!” (Mt 25,21). Convito stupendo in cui il Signore si farà servo: “Il padrone…, in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37).
Ogni Eucarestia è preludio e segno del grande banchetto escatologico: “L’Eucarestia… è sempre realtà intermedia o convocazione parziale tra il banchetto pasquale di Gesù e il festino universale delle nazioni a cui necessariamente rimanda e che prepara di volta in volta… Per questo, fin dalla prima generazione cristiana, partecipare all’Eucarestia voleva dire ricevere un «germe di immortalità», un «antidoto contro la morte», un «ius ad gloriam» anche per il nostro corpo, un pegno e una caparra, insomma, della resurrezione – transfigurazione finale… L’Eucarestia non è solo un banchetto commemorativo, ma anche anticipativo, perché la Pasqua del Signore è già vittoria sicura sulla morte e su tutte le potenze avverse… Così ogni celebrazione eucaristica è «viatico», tappa nel cammino della speranza verso la «terra promessa», ma insieme nuova forza per riempire della gloria di Cristo ogni realtà presente” (P. Visentin). L’Eucarestia “fa parte delle realtà che Cristo prepara per quelli tra i suoi fedeli che sono quaggiù in cammino «finché egli venga»” (S. Legasse).
Diceva Paolo VI: “E’ la Messa, questa celebrazione della nostra ricorrente fortuna di poterci incontrare con Cristo, non solo per via di memoria, di simbolo, di promessa, ma per via altresì e principalmente di vera e viva comunione…, la nostra forza, il nostro alimento, la nostra felicità, la nostra estasi umile e beata che concede alla nostra faticosa e concreta vicenda terrena di gustare un ineffabile preludio della vita celeste; è il nostro misterioso incontro quotidiano, nel segno della sua croce, con il Cristo glorioso alla destra del Padre”. Davvero allora “tutto posso in colui che mi dà forza” (seconda Lettura: Fil 4,13).
La parabola della festa nuziale (22,1-14)
La discordanza tra Matteo (Mt 22,1.14) e Luca (Lc 14,16-24) in questa parabola è talmente grande, che siamo portati a concludere che Matteo ha ampiamente rielaborato il racconto lucano. Invece di una cena, Matteo ha una festa di nozze reali: il protagonista è “un re”(Mt 22,2) e non “un uomo” (Lc 14,16); in aggiunta alle scuse addotte dagli invitati in Luca, Matteo inserisce la variante dell’uccisione dei messaggeri e nella guerra che ne segue (“Il re mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”). Questo particolare rappresenta con tutta probabilità la distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani nel 70 d.C.
Anche questa terza parabola di questa sezione matteana (la prima, quella dei due figli; 21,28-32; la seconda, quella dei vignaioli omicidi: 21,33-46) si muove nella stessa direzione della precedente.
Due sono le scene che la compongono. La prima rappresenta un banchetto nuziale per il figlio del re (richiamo trasparente alla venuta di Cristo). Ricordiamo che già nell’Antico Testamento l’alleanza con Dio era raffigurata da immagini nuziali, e Isaia (25,6) presentava sotto il simbolo di un banchetto l’era messianica perfetta. La risposta all’invito divino a partecipare al banchetto è dura e negativa, al punto che ci si accanisce perfino sui servi che comunicano l’invito, cioè i profeti (come già era accaduto nella parabola precedente dei vignaioli). Il re, in risposta, dà alle fiamme la loro città. E’ lo stile paradossale semitico che non esprime l’idea di un Dio feroce e vendicativo, ma solo che, se rifiutiamo la proposta dell’amore di Dio, la nostra vita sarà segnata dal dolore e dalla morte. Solo Dio è la nostra felicità e, come diceva Sant’Agostino, “nessuno ci fa felici come Dio”.
Nella seconda scena il re procede a nuovi inviti: tutti, buoni e cattivi, sono convocati alle nozze, è ormai l’apertura a tutti i popoli. Tuttavia, anche per costoro vale la necessità di un’adesione autentica e totale (rappresentata dal simbolo del mutamento di veste), cioè della propria realtà interiore, secondo il valore biblico di questa immagine: le opere della giustizia devono accompagnare la fede (cfr Mt 3,8; 5,20; 7,21ss; 13,47ss; 21,28ss). L’essere entrati nella sala non è ancora una garanzia: occorre essere in ordine, convertiti, vigilanti. La veste nuziale significa tutto questo.
Carlo Miglietta