Due sole parabole
In genere si considerano tre parabole distinte: la pecora smarrita, la moneta perduta e infine la cosiddetta parabola del figlio prodigo. In realtà, a ben analizzare il testo, ci troviamo di fronte a solo due parabole: una, quella del ritrovamento di ciò che si era perduto, declinata prima al maschile (il pastore e la pecora) e poi al femminile (la donna e la moneta), l’altra del padre misericordioso. Infatti, anche dal punto di vista sintattico, si legge prima: “Gesù disse loro questa parabola” (Lc 15,3), a cui segue l’unica narrazione del ritrovamento prima della pecora da parte del pastore e poi della dracma da parte della donna; mentre il racconto del figliol prodigo è introdotto poi da un inizio autonomo: “E diceva…” (Lc 15,11).
Dio è gioioso!
Ha detto Papa Francesco: “Le tre parabole della misericordia: quella della pecora smarrita, quella della moneta perduta, e poi la più lunga di tutte le parabole, tipica di san Luca, quella del padre e dei due figli, il figlio «prodigo» e il figlio che si crede «giusto», che si crede santo, tutte e tre queste parabole parlano della gioia di Dio. Dio è gioioso. Interessante questo: Dio è gioioso! E qual è la gioia di Dio? La gioia di Dio è perdonare, la gioia di Dio è perdonare! È la gioia di un pastore che ritrova la sua pecorella; la gioia di una donna che ritrova la sua moneta; è la gioia di un padre che riaccoglie a casa il figlio che si era perduto, era come morto ed è tornato in vita, è tornato a casa. Qui c’è tutto il Vangelo! Qui! Qui c’è tutto il Vangelo, c’è tutto il Cristianesimo!”.
Tutte le tre parabole infatti sottolineano la gioia di Dio per la conversione del peccatore. Al termine della prima si dice: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7); alla fine della seconda: “C’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte” (Lc 15,10); nella terza il Padre comanda: “Facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Lc 15,23-24). Anzi, nella conclusione dell’ultimo racconto il Padre afferma con forza: “Bisognava (èdei) far festa!” (Lc 15,32). Il tema della gioia percorre tutto il capitolo 15 di Luca, ricorrendo ben otto volte (Lc 15,5-6.7.9.10.23.24.32).
Il discorso quindi non è morale ma teologico: l’attenzione delle parabole non è sul pentimento dell’uomo, ma sulla gioia di Dio. Non viene più presentato un Dio severo e accigliato che attende di punire i cattivi, ma un Dio allegro e festante perché vuole riabbracciare i suoi figli perduti.
Il paradosso della misericordia
Gesù “disse loro questa parabola: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?»” (Lc 15,3-4). Gesù si aspettava che gli astanti gli rispondessero: “Certo, anche noi avremmo fatto così”? Ma credo che in realtà pochi si sarebbero comportati come il pastore della parabola. Perché rischiare le novantanove pecore per andare alla ricerca di una sola? Una corretta impostazione economica non prevede sempre i possibili “scarti di produzione”? Qui una pecora testarda e disobbediente al pastore, o desiderosa di autonomia, o tentata da chissà quali altri pascoli, o semplicemente distratta, si perde. Il pastore, per andare a cercarla, abbandona allora le altre novantanove pecore che invece erano a lui obbedienti, remissive, contente di stare con lui. Molti commentatori affermano che il pastore le avrà lasciate in un ovile sicuro, o affidate a un altro guardiano: ma il testo in realtà parla di vero abbandono (kataleìpe: Lc 15,4; aphèse: Mt 18,12). Il pastore le abbandona “sui monti” (Mt 18,12), si legge nel Vangelo di Matteo, o addirittura “nel deserto” (Lc 15,4), ci dice il Vangelo di Luca, esposte cioè alla voracità dei lupi e dei leoni, o all’assalto di ladri e briganti.
Anche il finale della parabola è al di fuori del nostro modo di pensare (Lc 15,7): come può Dio essere più contento di un solo peccatore che ritorna a lui che di novantanove giusti che ogni giorno gli obbediscono con fedeltà, magari a prezzo di grandi sforzi e sacrifici?
Ma siamo qui di fronte a quello stile del “paradosso” che spesso troviamo soprattutto nei Vangeli: si presenta una situazione talora persino assurda ma per stressare alcuni concetti.
Qui si vuole innanzitutto sottolineare che ciascuno di noi è preziosissimo agli occhi di Dio: ciascuno di noi è la gioia di Dio (Is 62,5). “Il messaggio della parabola è dunque quello dell’esclusività di ciascuno di noi…: nessuno deve sentirsi escluso dall’attenzione di Dio” (P. Farinella). Ciascuno di noi è unico per Dio, è oggetto particolare del suo amore. Dio ama ciascuno di noi come se non esistesse nessun altro, e continuamente ci cerca, ci conquista, ci seduce. Per Dio non è possibile che qualcuno possa essere lontano dal suo amore; Dio non tollera che qualcuno sia escluso dalla sua misericordia.
I poveri cercano Dio
Il secondo racconto, quello della moneta perduta e ritrovata, rimodula le tematiche di quello della pecora smarrita, ma con alcune sottolineature specifiche.
Innanzitutto la protagonista è una povera donna. Se la dracma è la paga giornaliera di un bracciante agricolo, tutto il “tesoro” di questa donna era il salario di dieci giorni. Mentre il primo racconto ci parlava di un ricco possidente, padrone di cento pecore, questo secondo ci presenta una persona umile, di bassa condizione. “Proprio a motivo della sua povertà è particolarmente interessata e appassionata nella ricerca” (R. Reviglio). A volte sono i poveri i migliori ricercatori del Regno di Dio.
Ma nel racconto c’è anche una sottolineatura ecclesiologica: “Se la donna invece di cercare avesse «spazzato» e buttato le «immondizie» fuori casa, non avrebbe più trovato la moneta; se la comunità non ha pazienza di verificare e attendere la crescita e la piena maturazione (conversione) dei suoi membri, ma li espelle per indegnità o impenitenza, non avverrà mai che possa festeggiare la loro conversione, il loro ritorno o ingresso nel regno” (O. Da Spinetoli).
Il Padre prodigo
In questa che è stata è stata definita “la perla delle parabole”, Signore, di “prodigo” ci sei solo Tu. Prodigo di perdono, di misericordia, di tenerezza, di Amore.
Fin dall’inizio, ci sconcerti con il tuo atteggiamento d’amore: quando il tuo secondogenito ti dice che vuole andarsene di casa, rifiuti persino di indagare sui suoi progetti, sulle sue intenzioni. E quando se ne va, non proferisci nessuna minaccia, non lanci nessuna scomunica. Non gli dici il classico: “Guarda che se esci da quella porta…!”: gli lasci aperto il tuo cuore. Il figlio, giunto al fondo della sua abiezione, sarà proprio attirato dalla dolcezza della tua casa, anche se spera di potervi rientrare al massimo come servo. E non tornerà perché pentito, ma per interesse, per pura necessità: “Io qui muoio di fame!” (15,17). Penserà di usarti e sfruttarti ancora una volta.
Ma tu ogni giorno hai scrutato l’orizzonte sperando nel suo ritorno. Passavi le giornate nella sua attesa. E per questo, “quando era ancora lontano” (15,20), lo hai visto, e ti sei profondamente “commosso”, ti sei messo a piangere di gioia, e hai cominciato a correre verso di lui (15,20). Per la cultura orientale, chiunque eserciti l’autorità, che si metta a correre, perde la sua onorabilità (Sir 19,27; Pr 19,2). Inoltre il figlio è un guardiano dei porci, è impuro. Ebbene, tu ti getti al suo collo lo stesso. Accetti di perdere la faccia e di diventare immondo tu stesso, pur di trasmettergli la vita.
E quando il figlio comincia a recitare la formula di pentimento che aveva precedentemente elaborato, non lo lasci finire, impazzito di gioia: ‘‘Questo mio figlio era morto, ed è risuscitato! Era perduto, ed è stato ritrovato!” (Lc 15,24). Ci fai capire che la cosa più inutile è chiederti scusa: mai Gesù nei Vangeli invita a chiederti perdono, perché tu mai ti senti offeso. Tu concedi il tuo amore a tutti, indipendentemente dalla nostra condotta.
Poi, o Signore, compi una serie di azioni che ci lasciano davvero stupefatti. Il figlio dissoluto viene anche subito reintegrato in tutti i diritti di prima, con un vero rito di investitura, attraverso tre simboli: la veste, segno di dignità, l’anello al dito, cioè il sigillo, con cui potrà compiere tutti gli atti giuridici e amministrativi, e i calzari, segno di adozione filiale (Dt 25,7-10).
È ben comprensibile la reazione del tuo figlio maggiore, il quale vede il restante capitale ora ridiviso in due, e che a lui, sempre ligio al lavoro e all’obbedienza, toccherà ormai solo un quarto dei beni iniziali. Ma la Tua logica non è quella della giustizia umana: è quella dell’amore, del perdono incondizionato, della grazia assoluta.
E sarai modello di Amore anche verso il figlio perbenista e giustizialista. Fai Tu il primo passo, uscendogli incontro; inoltre Tu, che non avevi fatto nessun discorso al figlio minore quando questi se ne voleva andare, ora supplichi, scongiuri (parekàlei: 15,28) il primogenito perché receda dal suo irrigidimento.
Signore, aiutaci a convertirci: fa’ che passiamo da un’idea di Te come controllore esoso e vendicativo, a quella di un Dio che non giudica nessuno, ma che sempre perdona, scusa, accoglie, ama. Aiutaci a camminare da una religiosità fatta di osservanza a prescrizioni verso una Fede in un Dio Misericordia che gratuitamente salva tutti.
Grazie, o Padre, di essere così meravigliosamente “prodigo” verso di noi!
Carlo Miglietta