Il comandamento principale
(Mt 22,34-40)
E’ la quarta narrazione di una controversia in Matteo.
L’ebraismo farisaico, nella sua corrente hillelita, ammetteva sia la facoltà di una gerarchia di prescrizioni, distinguendoli in “leggere” e in “gravi” (Mt 5,19; 23,23), sia la possibilità di riassumere tutta la Legge in un unico “grande precetto” (“kelal gadol”). Questo tipo di domanda era normale nelle discussioni rabbiniche.
La grande tradizione rabbinica, nel marasma di prescrizioni e decreti dell’ebraismo, ricercava, secondo il quesito posto a Gesù da un dottore della Legge, quale fosse “il primo” (Mt 22,34-40), “il più grande” (Mc 12,28-31) comandamento, quello necessario “per avere la vita eterna” (Lc 10,25-28), quello che potesse compendiare tutta la Legge e i Profeti (Mt 22,40). Il Talmud diceva che venne Mosè e furono dati 613 comandamenti, 365 negativi (il numero dei giorni dell’anno) e 248 positivi (il numero delle membra del corpo umano); venne Davide e li ridusse a 11, secondo il testo del Salmo 15; Isaia li ridusse a 6, espressi nel capitolo 33 (Is 33,15-16); Michea li portò a 3, secondo il brano di Mi 6,8; ancora Isaia li compendiò in 2, secondo il capitolo 56 (Is 56,1): “Osservate il diritto e praticate la giustizia”; infine Abacuc li ridusse ad uno solo: “Il giusto per fede vivrà” (Ab 2,4).
A Gesù viene posto dai farisei, nel Vangelo odierno (Mt 22,34-40), il quesito su quale fosse secondo lui il “kelal gadol”. Gesù risponde citando il comando dello “Shema’”, l’“Ascolta, Israele” (Dt 6,5), che imponeva l’amore verso Dio, soltanto sostituendo “con tutta la forza” del suo testo con la frase “con tutta la mente” (“dianoia”). Fin qui, posizione inattaccabile dai farisei.
Ma Gesù va subito oltre, affermando che c’è “un secondo comandamento simile al primo” (22,39), quello dell’amare il prossimo come se stessi. Solo Matteo aggiunge che da questi due comandamenti “dipende” tutta la legge e i profeti: vale a dire l’intera rivelazione dell’Antico Testamento. A questi due precetti sono “appesi” (22,40: “krèmatai” sottintende l’ebraico “telujim”) non solo la Torah, ma anche tutto il profetismo, così come due cardini sostengono una porta.
Gesù quindi insegnò che “il più grande e il primo dei comandamenti” era: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”, ma che il secondo era “simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,37-38); anzi, in Marco si dice: “Non c’è altro comandamento (ndr: al singolare) più importante di questi” (Mc 12,31), e Luca li presenta come un unico comando, omettendo il verbo “amerai”, “agapèseis” (Lc 10,27).
La novità dell’affermazione di Gesù consiste nell’aver collocato Lv 19,18: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” sullo stesso livello di Dt 6,5: “Amerai Dio con tutto il tuo cuore”. Gesù, presenta, cioè, i due comandamenti come se fossero in realtà uno solo. “L’associazione dei due precetti dell’amore… è un dato evangelico senza paralleli nell’ebraismo, salvo che nei Testamenti dei dodici Patriarchi, un’opera sospetta di interpolazioni cristiane” (A. Mello).
Paolo accetta la tradizione talmudica e utilizza il succitato brano di Abacuc (Ab 2,4): “Il giusto per fede vivrà” (Rm 1,17). Ma fede è entrare nella logica del piano d’amore di Dio, perciò Paolo conclude: “Qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»… Pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,9-10); “Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il prossimo tuo come te stesso»” (Gal 5,14).
Per questo gli apostoli costantemente esortano: “Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione” (Col 3,14); “Amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri” (1 Pt 1,22); “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte… Egli ha dato la vita per noi: quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,14.16); “Soprattutto conservate tra voi una grande carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati” (1 Pt 4,8).
Il “comandamento nuovo” dell’amore vicendevole, che diventerà il distintivo dei discepoli (Gv 13,34), è l’unica traduzione del comando di amare Dio: Dio infatti vuole essere amato nell’uomo: “Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20); “Se uno possiede le ricchezze in questo mondo, e vedendo il proprio fratello nel bisogno gli chiude il cuore, come l’amore di Dio può dimorare in lui?” (1 Gv 3,17); “Chi accogli voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Mt 10,40); “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me… Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,40.45).
Ci ammonisce Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1 Cor 13,3).
Ormai i cristiani hanno un “comandamento nuovo” che li deve far riconoscere tra tutti gli uomini, amarsi scambievolmente (Gv 13,34): questo è l’unico criterio di ecclesialità propostoci da Cristo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
Perché questo comandamento è “nuovo”?
Esso è rivoluzionario per l’origine: ci amiamo perché Dio ci ha amati per primo (1 Gv 4,19). Inoltre l’amore con cui dobbiamo amarci trova la sua fonte in Dio: l’avverbio greco “come” (“kathòs”) nell’espressione “come io vi ho amati” (Gv 13,34) non esprime soltanto un paragone, quanto piuttosto la causalità, la materialità: “Amatevi dello stesso amore con cui io vi ho amati”.
E’ un comandamento nuovo per la misura: non dovremo più soltanto amarci come noi stessi (Mt 19,38), ma come Gesù ci ha amati, cioè “fino alla fine” (Gv 13,1), fino a dare la vita per gli amici (Gv 15,13).
Ed è nuovo per l’estensione: non dovremo solo amare i “nostri”, quelli del nostro gruppo, della nostra razza o della nostra religione, quelli che ci stanno simpatici, ma addirittura i nemici: “Infatti, se amate solo quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,46-48), “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45).
L’amore sarà poi il segno della nuova Alleanza: la carità reciproca deve essere segno, sacramento tangibile, del supremo atto di affetto di Dio per gli uomini, il sacrificio del Figlio (Mt 26,28).
L’amore fraterno inoltre ci apre al mistero di Dio: “Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,7-8): tante volte la nostra fede è debole proprio perché non amiamo; amando, possiamo ottenere la “conoscenza” di Dio, cioè entrare nella sua intimità: ricordiamocelo, quando siamo in “crisi di fede”…
Carlo Miglietta – sito web