PRESENTAZIONE DEL FIGLIO DI DIO (1,1)
Il Vangelo, la Buona Notizia, è Gesù Cristo stesso, Figlio di Dio; questa è la grande novità: che Dio si è fatto uomo, uno di noi, in Gesù Cristo.
Marco è l’unico evangelista che ha intitolato “Vangelo” (“to euaggelion” = “buona notizia”) il suo libro su Gesù Cristo. Solo più tardi questo termine è passato ad indicare anche l’opera degli altri autori che hanno descritto la vita di Gesù. Marco identifica la buona notizia con Cristo stesso: in 8,35 e 10,29 sacrificarsi o morire per il Vangelo è farlo per Cristo.
In Marco 13, 9-11 l’invito di Gesù ai discepoli a testimoniare per lui viene interpretato come un proclamare il Vangelo a tutte le nazioni, con l’implicazione che nella stessa proclamazione Cristo è fatto presente.
Nell’intitolare il suo libro “il Vangelo”, Marco intende affermare che esso non è primariamente un resoconto o una narrazione su Gesù, ma una proclamazione del Cristo risorto, nella quale egli si è reso nuovamente presente. Per questo la Chiesa non si limita a ripetere la predicazione di Gesù, ma fa di lui (persona e storia) l’oggetto del proprio annuncio. Ciò che segue del Vangelo è la buona notizia, che rende nuovamente presente Gesù, Messia e Figlio di Dio, nei vari episodi concernenti il suo ministero terrestre fino alla sua risurrezione.
La prima parola scritta da Marco (“inizio”) ci dice che il Vangelo, la lieta notizia che è Gesù stesso, non è apparso come qualcosa di grandioso: ebbe, invece, un umile inizio e, quindi, uno sviluppo, che solo alla fine apparirà nella sua pienezza: il Vangelo percorre la strada del seme che diventa albero. La parola ”inizio” è imposto dalla tecnica letteraria per cominciare una qualsiasi composizione, ma essa ricava da Gen 1,1 una particolare solennità e importanza. Anche Gv 1,1 (“In principio era il Verbo”) cita letteralmente la prima parola della Genesi, e Mt 1,1 ricorre alla genealogia di Gesù: formula introduttiva della tradizione sacerdotale, per iniziare il suo Vangelo. Quindi, già questa prima parola chiarisce il contenuto dello scritto di Marco: egli parla di un inizio nuovo, voluto da Dio con un intervento irripetibile, nel tempo finito sì, ma di importanza definitiva. Questo inizio nuovo diventa per il lettore che legge con gli occhi della fede, l’inizio nuovo della propria vita.
Possiamo tradurre in questo modo questo primo versetto: inizio della lieta notizia che consiste nel fatto che Gesù, che ha condotto una vita umile, che ha scelto il servizio e la croce, è il Messia, è il Figlio di Dio.
Marco pone, dunque, all’inizio della sua narrazione due professioni di fede, intorno alle quali si svilupperà tutta la meditazione successiva: Gesù è il Messia (tale titolo è spiegato nel suo giusto senso in Mc 8,29), Gesù è il Figlio di Dio (per capire il significato occorre leggere Mc 15,39).
Leggendo Mc 8,29 (e il suo contesto) siamo invitati a passare dal Messia al Figlio dell’uomo: Gesù è Messia, ma non nella linea politica e nazionalistica, bensì della croce. Leggendo Mc 15,39 si comprende che Gesù è veramente Figlio di Dio per noi, un Dio che ama l’uomo e si rivela nell’amore (così lo coglie il centurione ai piedi della croce, esempio del catecumeno che è giunto a capire il mistero).
Il titolo “Figlio di Dio” ha chiaramente il senso teologico pregnante che gli attribuiva la comunità post-pasquale del tempo di Marco. E’ un titolo che lui usa con sobrietà, ma lo inserisce soprattutto in tre testi importanti: nel Battesimo (1,11), nella Trasfigurazione (9,7) e nella Passione, al momento della professione di fede del centurione (15,39). Ma quale significato preciso dobbiamo attribuire al titolo “Figlio di Dio?”. E’ proprio per rispondere a questa domanda che Marco racconta la vicenda di Gesù.
Chi è Gesù? Marco risponde: ”E’ il Figlio di Dio”, non nella linea della gloria e della potenza ma in quella della povertà e della sofferenza: Gesù rivela la sua figliolanza divina sulla Croce. Difatti i tre testi citati (Battesimo, Trasfigurazione e Crocifissione), sono su questa linea.
Il Battesimo colloca la vocazione messianica di Gesù nella linea del Servo di Dio, di cui ha parlato Isaia: un progetto di salvezza che passa attraverso il servizio e la morte per gli altri. La Trasfigurazione si colloca dopo l’annuncio della Passione ed ha lo scopo di rivelare in anticipo ai discepoli che la croce racchiude la risurrezione. Infine è proprio di fronte a Gesù morente che il primo pagano si converte: il centurione riconosce in Gesù il Figlio di Dio, non vedendo i prodigi, ma vedendolo morire.
GIOVANNI IL BATTEZZATORE (1,2-8)
Come nella predicazione degli Apostoli (At 1,22; 10,37; 13,24) anche la proclamazione del Vangelo inizia con il ministero di Giovanni nel deserto.
Qui, però, il ministero di Giovanni ha un posto nel Vangelo solo in quanto è il preludio voluto da Dio al suo atto salvifico manifestato nelle venuta di Gesù, il Messia. La predicazione di Giovanni, infatti, riguarda uno più potente, “più forte” (1,7) che deve ancora venire.
Per costruire il quadro di Giovanni Battista, Marco fa riferimento sia al testi di Isaia (40,3) e Malachia (3,1), sia all’austero Elia che indossava un “mantello di pelo” (vestito abituale di un profeta) e una “cintura di cuoio” (2 Re 1,8).
Il ricorso all’A.T. – allo scopo di collocare la storia di Gesù nel piano della salvezza – fu un costante problema della comunità primitiva. Il riferimento alle Scritture fu una delle chiavi più importanti di cui la comunità si è servita per illuminare l’intelligenza al mistero di Gesù.
Le citazioni dell’A.T. (Marco le colloca proprio in apertura (v. 2) del suo Vangelo) per capire il presente, rientra nella prassi giudaica dell’epoca: però il modo cristiano di leggere l’A. T. si differenzia da quello giudaico.
La caratteristica di fondo della lettura cristiana sta nel fatto che l’attualizzazione delle Scritture e il compimento delle profezie sono concentrate su un personaggio e su un avvenimento decisivo: la Risurrezione. Gesù non è soltanto il maestro che istruisce i discepoli nelle Scritture; egli è l’oggetto di cui le Scritture parlano. L’A. T. è letto a partire dalla risurrezione, cioè da un fatto, da un avvenimento realmente accaduto, e non semplicemente da una vaga speranza, promessa e mai realizzata.
Possiamo, quindi, affermare che Giovanni Battista sia nella sua vita austera che nella sua predicazione si colloca nella grande linea del profetismo veterotestamentario, ma è anche il precursore del Nuovo Testamento.
Nella sua vita, Giovanni non coltiva né campi né orti, ma ricava il suo nutrimento dalla steppa, proprio come Israele, che nei suoi 40 anni di peregrinazione viveva soltanto di quel che gli offriva il deserto. Giovanni, dunque, personifica il vero Israele, che vive nel “deserto” e attende colui che dovrà venire, cioè il più forte. Tra Giovanni, il precursore, e Colui che dovrà venire esiste, dunque, una distanza infinita: “Io non sono degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali”.
Giovanni predica un Battesimo di penitenza. L’abluzione rituale (cioè l’immergere nell’acqua) era una cerimonia diffusa in molte altre religioni e anche nella religione ebraica dell’epoca, ma Giovanni trasforma questo atto spesso esteriore in una scelta religiosa: per ricevere il Battesimo è necessaria la conversione del cuore per il perdono dei peccati.
Marco, poi, ha elaborato in senso cristiano la predicazione del Battista: afferma, infatti, che il dono battesimale portato da Cristo sarà lo Spirito Santo: opera già qui la teologia cristiana del battesimo.
Giovanni si presenta come la voce di colui che chiama nel deserto: chiama il popolo d’Israele a riscoprire i propri inizi, a ridiventare quel piccolo gruppo che tra mille pericoli, ma con il risolutore intervento di Dio, era riuscito a sfuggire al faraone d’Egitto e che nel deserto aveva dovuto imparare chi era, e che cosa voleva veramente Dio.
Giovanni ricordava quella fase della storia di Israele, quando il popolo nel deserto, avendo ricevuto come indicazione i soli Comandamenti, aveva seguito senza una meta precisa il suo Dio. Ma appena Israele era giunto nella terra della promessa e dell’abbondanza concessa da IHWH, ben presto aveva dimenticato la lezione del deserto. Aveva dimenticato che Dio non è presente staticamente in un qualche luogo, ma vuol essere oggetto di una continua ricerca e di una costante imitazione. Israele non voleva più cercare con fatica le tracce di Dio: gli costruisce, invece, un tempio a Gerusalemme. Israele aveva dimenticato che Dio non aveva chiesto tanti sacrifici e atti di culto, bensì la legge semplice e chiara dei dieci Comandamenti.
Dio aveva comandato che Israele fosse un popolo di fratelli che si amano l’un l’altro, un popolo nel quale anche il più debole poteva vivere nella sicurezza. Ma Israele aveva dimenticato tutto ciò, e offriva costosi sacrifici, celebrava grandi feste. Giovanni, però, non aveva dimenticato, richiamava il popolo agli inizi, a riscoprire le proprie origini, parlava di “conversione”.
La sua predicazione non era solo diretta agli abitanti di Gerusalemme di quei tempi, ma vale anche per noi. Anche noi spesso abbiamo chiuso Dio nella Chiesa, lo serviamo con i sacrifici e il culto e poi lo dimentichiamo quando cominciano i reali problemi della vita quotidiana. Salvaguardiamo solo i nostri interessi, cerchiamo stabilità e sicurezza nelle cose che passano, escogitiamo i compromessi più astuti e più comodi, ma non ci accorgiamo che, così facendo, diventiamo sempre più opachi, miopi e schiavi.
Dio vuole che gli uomini vivano l’uno con l’altro, e non l’uno contro l’altro. Solo l’amore per i fratelli, per il prossimo, spezza le chiusure del nostro egoismo che ci soffoca. Solo partendo da questa realtà potremo riacquistare la libertà per nuovi “inizi”, solo amando i fratelli potremo cercare Dio e onorarlo veramente.