Ciò che saremo
In questa preziosa solennità facciamo memoria di tutti i santi, l’incalcolabile folla di fratelli e sorelle che hanno saputo portare a pienezza i loro giorni in questo mondo e sono già entrati nel mistero della vita eterna e nella comunione con Dio. Coloro che chiamiamo santi non sono figure di un’umanità eccellente ed esclusiva, ma la manifestazione di quello che lo Spirito vuole e può compiere per farci attraversare la «grande tribolazione» (Ap 7,14) nella luce e nella prospettiva del Regno.
Il veggente di Patmos – autore del libro dell’Apocalisse – afferma che i santi non sono affatto pochi, anzi sono addirittura «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (7,9). Mentre noi abbiamo sempre uno sguardo preferenziale per ciò che manca o appare limitato, agli occhi di Dio ciò che conviene porre in evidenza è sempre il bene, il bello e il vero che matura silenziosamente nel santuario della nostra umanità, creata a sua immagine e somiglianza. Per questo, nel maestoso scenario celeste dell’Apocalisse, non c’è più spazio per alcun individualismo, poiché «tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (7,9) e cantavano, anzi gridavano, un canto finalmente nuovo: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (7,10).
Nessuno si vanta né si gloria di se stesso, dei propri meriti o dei traguardi raggiunti, ma ciascuno riferisce il mistero della propria esistenza unicamente a quel Dio che si è donato e rivelato sul trono della croce. Non è corretto pensare ai santi come coloro che hanno saputo realizzarsi prendendo il vangelo come norma di vita. Meglio immaginarli come coloro che, scoprendo e accogliendo la propria povertà, hanno trovato la felicità nel permettere a Dio di compiere in loro le sue opere di amore. Per questo, al termine dei loro giorni, non cantano la propria gloria, ma quella di colui che li ha amati.
«Uno degli anziani» (7,13) descrive proprio così questa immensa moltitudine: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (7,14). Prendendo a prestito le parole dell’apostolo Giovanni, potremmo dire che i santi sono le persone che hanno compreso «quale grande amore ci ha dato il Padre» (1Gv 3,1) fino a sperimentare come questa offerta d’amore – così larga e incondizionata – sia il dono necessario non solo per sentirsi ma anche per «essere chiamati figli di Dio» (3,1). Tuttavia, «ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (3,2), perché restiamo persone libere e dentro un cammino fragile, pieno di ostacoli e di contraddizioni. Pertanto, questa nostra condizione di santità non può che restare come un piccolo seme da difendere e far crescere, attraverso l’esercizio della nostra responsabilità.
Ecco allora il vangelo delle beatitudini (Mt 5,1-12), a strapparci dal triste inganno di pensare che per toccare il cielo con un dito – per essere felici – bisogna occupare un prestigioso ruolo sociale, conquistare gratificazioni e riconoscimenti attraverso gli strumenti del possesso e del potere. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5,3): le beatitudini proclamano che la strada verso una pienezza di vita non va cercata fuori, ma dentro i confini della nostra realtà; ci assicurano che non è vero che siamo tutti destinati alla felicità, ma esattamente il contrario: la felicità è destinata a noi, da sempre, da Dio nostro Padre. La chiave di un’autentica gioia non sta in cima ai nostri desideri frustrati, ma in fondo alla capacità di accettare la realtà, con le sue tante luci e le sue inevitabili ombre.
Le beatitudini sono l’invito ad accogliere con gratitudine quello che siamo e quello che stiamo diventando, rifiutando l’illusione che la vita possa migliorare solo quando giunge qualcosa di più grande e di più bello rispetto a quello che abbiamo. La realtà, così com’è, con le sue mancanze e i suoi imprevisti, può sempre diventare un luogo e un modo di felicità, nella misura in cui non ci stanchiamo di sbiancare il tessuto della nostra umanità attingendo ogni consolazione dalla misericordia del Signore: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,3).
Signore Gesù, donaci di essere contenti di noi stessi, senza intristirci per quello che non riusciamo a essere, nella fiducia che la tua promessa d’amore custodisce ciò che saremo. Donaci di comprendere che noi siamo già salvi e santi perché tu ci hai amato nella nostra povertà, e fa’ che pregustiamo ciò che saremo da come oggi lasciamo che tu ci ami.