Volentieri
Non può che apparire crudele, quasi assurdo, il modo in cui il padrone della parabola gestisce il servo «malvagio e pigro» (Mt 25,26), che non ha saputo investire il talento ricevuto: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (25,28-30). Per illuminare il mistero di questo insegnamento di Gesù, è necessario fare attenzione alle ultime parole con cui il servo cerca di giustificare il suo comportamento, quando arriva il momento di fare i conti con il padrone: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» (25,24-25).
In questa voce, così insicura e tremante, non è difficile riconoscere la paura di Adamo, che si nasconde da un Dio ormai avvertito come avversario minaccioso. Del resto, la conclusione della parabola non è né buona, né nuova notizia, ma rivela semplicemente il sospetto di non valere niente che, proiettato all’esterno, si trasforma in un pesante giudizio sugli altri, sempre percepiti come giudicanti o esigenti nei nostri confronti.
Da questo brutto modo di guardare a noi stessi nascono tutte le forme di vergogna e di poca creatività che seppelliscono la nostra vitalità sotto terra, in una logica di preservazione per cui, se nulla di male può accadere, certamente nemmeno qualcosa di veramente buono può sorgere. Il vangelo nascosto in questa parabola, invece, è presente fin dalle prime battute, talmente semplici e luminose da sembrare quasi uno sfondo superfluo: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì» (25,14-15). L’uomo che Gesù utilizza come metafora per illustrare il volto di Dio non è affatto duro, anzi, sembra avere così tanta fiducia nei suoi servi da trasmettere loro i suoi beni, senza nemmeno volerne la restituzione.
Inoltre, fa questa generosa consegna rispettando la capacità di ciascuno, senza mettere nessuno nella difficoltà di dover fare un passo più lungo della propria gamba. Infine si allontana, lasciando spazio e tempo per provare, sbagliare e imparare a incrementare il dono di vita ricevuto. Con una sincera e assoluta fiducia, simile a quella che l’uomo del libro dei Proverbi nutre nei confronti della sua donna: «In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita» (Pr 31,11-12).
Questo volto splendido di Dio, che rende operosi e sereni i suoi figli, è quanto l’apostolo Paolo cerca di ricordare ai cristiani di Tessalonica, suggerendo loro di non spegnere la luce della rivelazione evangelica: «Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro» (1Ts 5,4). Il timore dell’ultimo servo si era costruito attorno alla scusa di aver ricevuto qualcosa di meno degli altri, ma il suo vero problema è non avere avvertito come «suo» ciò che il padrone aveva trasmesso a lui con tanta confidenza: «Ecco ciò che è tuo» (Mt 25,25). Quando non sentiamo come «nostro» ciò che siamo e quello che la vita ci ha donato, cadiamo inevitabilmente nella paura e non facciamo più niente «volentieri» (Pr 31,13), come figli.
Dio non soffre quando commettiamo qualche peccato, ma quando fraintendiamo la grande dignità che ha assegnato alla nostra vita. Dicendo che sarebbe stato meglio, al limite, affidare il talento ai banchieri per averne almeno un interesse, il padrone vuole aiutare il servo a capire che le tenebre della tristezza e del vittimismo sono anzitutto interiori. Per questo proprio lì – in una profonda oscurità esteriore – occorre passare per un tempo di purificazione e di guarigione, nell’attesa che spunti presto la stella di un nuovo mattino. Talvolta è meglio andare fino in fondo alle tenebre con cui siamo in dialogo, permettendo ai nostri sentimenti di effondersi in libertà. Solo così possiamo rimetterci in cammino verso quel Padre che vuole donarci solo «felicità» e non «dispiacere per tutti i giorni» (31,12) della nostra vita.
Signore Gesù, che ci lasci volentieri nelle tenebre, ma solo perché ci accorgiamo di esserci infilati lì da soli, suscita nel profondo di noi, lì dove si genera il pianto, il desiderio invincibile della luce. Fa’ che, senza nasconderci e senza giudicare nessuno, torniamo ad accogliere, investire e rischiare volentieri quanto la vita ci ha donato e affidato.