Padri Dehoniani – Commento al Vangelo di domenica 15 Novembre 2020 – Giornata mondiale dei poveri

P

Volentieri

Non  può  che  apparire  crudele,  quasi  assurdo,  il  modo  in  cui  il padrone  della  parabola  gestisce  il  servo  «malvagio  e  pigro»  (Mt 25,26), che non ha saputo investire il talento ricevuto: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto  anche  quello  che  ha.  E  il  servo  inutile  gettatelo  fuori  nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (25,28-30).  Per illuminare il mistero di questo insegnamento di Gesù, è necessario fare attenzione alle ultime parole con cui il servo cerca di giustificare il suo comportamento, quando arriva il momento di fare i conti con il  padrone:  «Signore,  so  che  sei  un  uomo  duro,  che  mieti  dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra» (25,24-25).

In questa voce, così insicura e tremante, non è difficile riconoscere la paura di Adamo, che si nasconde da un Dio ormai avvertito come avversario minaccioso. Del resto, la conclusione della parabola non è né buona, né nuova notizia, ma rivela semplicemente il  sospetto  di  non  valere  niente  che,  proiettato  all’esterno,  si  trasforma  in  un  pesante  giudizio  sugli  altri,  sempre  percepiti  come giudicanti  o  esigenti  nei  nostri  confronti.  

Da  questo  brutto  modo di  guardare  a  noi  stessi  nascono  tutte  le  forme  di  vergogna  e  di poca  creatività  che  seppelliscono  la  nostra  vitalità  sotto  terra,  in una logica di preservazione per cui, se nulla di male può accadere, certamente nemmeno qualcosa di veramente buono può sorgere. Il  vangelo  nascosto  in  questa  parabola,  invece,  è  presente  fin dalle  prime  battute,  talmente  semplici  e  luminose  da  sembrare quasi uno sfondo superfluo: «Avverrà come a un uomo che, partendo  per  un  viaggio,  chiamò  i  suoi  servi  e  consegnò  loro  i  suoi beni.  A  uno  diede  cinque  talenti,  a  un  altro  due,  a  un  altro  uno, secondo  le  capacità  di  ciascuno;  poi  partì»  (25,14-15).  L’uomo che Gesù utilizza come metafora per illustrare il volto di Dio non è  affatto  duro,  anzi,  sembra  avere  così  tanta  fiducia  nei  suoi servi  da  trasmettere  loro  i  suoi  beni,  senza  nemmeno  volerne  la restituzione.

 Inoltre,  fa  questa  generosa  consegna  rispettando la  capacità  di  ciascuno,  senza  mettere  nessuno  nella  difficoltà di  dover  fare  un  passo  più  lungo  della  propria  gamba.  Infine  si allontana, lasciando spazio e tempo per provare, sbagliare e imparare a incrementare il dono di vita ricevuto. Con una sincera e assoluta fiducia, simile a quella che l’uomo del libro dei Proverbi nutre  nei  confronti  della  sua  donna:  «In  lei  confida  il  cuore  del marito  e  non  verrà  a  mancargli  il  profitto.  Gli  dà  felicità  e  non dispiacere per tutti i giorni della sua vita» (Pr 31,11-12).

Questo  volto  splendido  di  Dio,  che  rende  operosi  e  sereni  i  suoi figli,  è  quanto  l’apostolo  Paolo  cerca  di  ricordare  ai  cristiani  di Tessalonica,  suggerendo  loro  di  non  spegnere  la  luce  della  rivelazione  evangelica:  «Ma  voi,  fratelli,  non  siete  nelle  tenebre, cosicché  quel  giorno  possa  sorprendervi  come  un  ladro»  (1Ts 5,4).  Il  timore  dell’ultimo  servo  si  era  costruito  attorno  alla  scusa  di  aver  ricevuto  qualcosa  di  meno  degli  altri,  ma  il  suo  vero problema  è  non  avere  avvertito  come  «suo»  ciò  che  il  padrone aveva trasmesso a lui con tanta confidenza: «Ecco ciò che è tuo» (Mt  25,25).  Quando  non  sentiamo  come  «nostro»  ciò  che  siamo e  quello  che  la  vita  ci  ha  donato,  cadiamo  inevitabilmente  nella paura  e  non  facciamo  più  niente  «volentieri»  (Pr  31,13),  come figli.  

Dio  non  soffre  quando  commettiamo  qualche  peccato,  ma quando  fraintendiamo  la  grande  dignità  che  ha  assegnato  alla nostra  vita.  Dicendo  che  sarebbe  stato  meglio,  al  limite,  affidare il talento ai banchieri per averne almeno un interesse, il padrone vuole  aiutare  il  servo  a  capire  che  le  tenebre  della  tristezza  e del  vittimismo  sono  anzitutto  interiori.  Per  questo  proprio  lì  –  in una  profonda  oscurità  esteriore  –  occorre  passare  per  un  tempo di  purificazione  e  di  guarigione,  nell’attesa  che  spunti  presto  la stella di un nuovo mattino. Talvolta è meglio andare fino in fondo  alle  tenebre  con  cui  siamo  in  dialogo,  permettendo  ai  nostri sentimenti  di  effondersi  in  libertà.  Solo  così  possiamo  rimetterci in  cammino  verso  quel  Padre  che  vuole  donarci  solo  «felicità»  e non «dispiacere per tutti i giorni» (31,12) della nostra vita.

Signore Gesù, che ci lasci volentieri nelle tenebre, ma solo perché ci accorgiamo di esserci infilati lì da soli, suscita nel profondo di noi, lì dove si genera il pianto, il desiderio invincibile della luce. Fa’ che, senza nasconderci e senza giudicare nessuno, torniamo ad accogliere, investire e rischiare volentieri quanto la vita ci ha donato e affidato.