Padri Dehoniani – Commento al Vangelo di domenica 22 Novembre 2020 – N.S. Gesù Cristo, Re dell’universo

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Più piccoli

Presumibilmente stanco di vedere il suo popolo disperso e smarrito, desolato nel vedere i suoi pastori più preoccupati di se stessi che degli altri, il Signore, già nei tempi antichi, non ha resistito a  formulare  un’impegnativa  promessa:  «Ecco,  io  stesso  cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna […].

Io stesso condurrò le mie  pecore  al  pascolo  e  io  le  farò  riposare.  Oracolo  del  Signore Dio» (Ez 34,11.15). La ripetizione con enfasi di quel pronome personale  può  essere  una  grande  consolazione  per  ciascuno  di  noi, che così spesso ci sentiamo un po’ in balìa della nostra debolezza  e  delle  circostanze,  come  pecore  che  non  sanno  bene  in  che direzione marciare. Del resto, il compito di una guida non è nemmeno  quello  di  fare  la  strada  al  posto  degli  altri,  ma  soltanto  di indicarla,  infondendo  la  necessaria  fiducia  per  poterla  affrontare con  speranza.  

Questo  tipo  di  regalità  non  è  una  funzione  svolta solo da chi, nella vita, accetta di assumere una forma di paternità –  nella  carne  o  nello  spirito  –  ma  da  chiunque  diventa  sensibile nei  confronti  della  piccolezza  degli  altri  a  partire  da  una  serena accettazione della propria: «Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò  all’ovile  quella  smarrita,  fascerò  quella  ferita  e  curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte» (34,16).

La  riflessione  che  l’apostolo  Paolo  sviluppa  nel  capitolo  15  della Prima  lettera  ai  Corinzi  offre  una  singolare  occasione  di  approfondimento di questo tema. In un contesto ecclesiale già segnato dalla tentazione di non avere fiducia nella cosa più importante e decisiva della fede cristiana – il mistero della risurrezione – Paolo ribadisce il punto capitale dell’annuncio evangelico. Condurre gli altri  verso  la  verità  non  significa  porsi  di  fronte  a  loro  con  supponenza  o  arroganza,  ma  professare  umilmente  quanto  di  più prezioso  ha  raggiunto  e,  magari,  ferito  le  profondità  del  nostro cuore.

Tra le forme di attenzione agli altri meno praticate e stimate,  anche  nel  nostro  tempo,  ci  sono  alcuni  atteggiamenti  che  la nostra tradizione spirituale ha definito opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori. Paolo non sembra affatto preoccupato di ferire o urtare la  sensibilità  dei  suoi  fratelli,  quando  cerca  di  consigliare  il  loro cuore, insegnare alla loro mente quel vangelo di cui non può mai essere sazio chi è disposto a riconoscersi peccatore: «Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita» (1Cor 15,20-22).

Naturalmente,  l’amore  per  il  prossimo  resta  un  movimento  con cui ci avviciniamo al mistero della sua vita senza alcuna bramosia di conquista e, soprattutto, senza alcun protagonismo. Ci ricorda tutto  questo  la  grande  parabola  di  Matteo,  dove  «finisce»  ogni facile giudizio con cui siamo sempre tentati di regolare i conti con la  realtà.  Il  fatto  che  tanto  i  giusti  quanti  gli  empi,  alla  fine  dei tempi, si troveranno a chiedere al «re» della storia «quando» (cf. Mt  25,37.44)  hanno  ricevuto  l’occasione  di  servirlo,  ci  fa  capire che la regalità di Cristo diventa la sostanza della nostra umanità quando  nemmeno  ci  rendiamo  conto  di  essere  ormai  diventati simili  a  Dio  nell’amore.  

Finché  facciamo  atti  di  bontà  caricandoli di  intenzioni,  rischiamo  di  «usare»  l’altro  a  nostro  vantaggio  e il  bene  che  possiamo  fargli  lo  facciamo,  in  realtà,  ancora  per noi  stessi.  L’amore  capace  di  toccare  ed  esprimere  il  cuore  stesso  di  Dio,  invece,  sembra  essere  quello  che  possiamo  compiere con  estrema  naturalezza,  come  espressione  di  una  connaturalità raggiunta  senza  alcun  vanto  e  senza  alcuno  sforzo.  Ciò  significa che  non  saremo  giudicati  su  quanto  saremo  diventati  bravi,  ma su  quanto  saremo  diventati  noi  stessi,  sensibili  ai  «più  piccoli» momenti  e  alle  più  piccole  occasioni  di  incontrare  nei  «fratelli» (25,40) il volto del Figlio dell’uomo.

Signore Gesù, donaci di rappacificarci con il nostro essere più piccoli di come credevamo. Trasforma il nostro sguardo perché da questa riscoperta statura di piccoli possiamo guardare con benevolenza anche i fratelli più piccoli. Connaturali a te lo siamo, ma aiutaci a diventarlo nei più piccoli gesti di accoglienza verso noi stessi e verso gli altri.