La tua mano, Signore, sostiene il tuo eletto
Matteo 22,41-46 – In quel tempo. Mentre i farisei erano riuniti insieme, il Signore Gesù chiese loro: «Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide». Disse loro: «Come mai allora Davide, mosso dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: / “Disse il Signore al mio Signore: / Siedi alla mia destra / finché io ponga i tuoi nemici / sotto i tuoi piedi”? Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». Nessuno era in grado di rispondergli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo.
Fratelli, sorelle,
il nome del re Davide ritorna in tutte le letture di questa domenica (IX dopo Pentecoste, 10 agosto 2025). Ampiamente nel racconto della prima lettura, appena accennato nell’epistola a Timoteo e infine nella discussione di Gesù con alcuni farisei, riportata dal Vangelo di Matteo. Gesù aveva domandato loro di chi fosse figlio il Messia e quelli Gli risposero che era figlio “di Davide”.
E l’episodio tratto dal I libro di Samuele che narra dell’unzione regale del giovane Davide, segnala un cambiamento forte, un passaggio che diventa decisivo. Nonostante il grande apprezzamento che la Scrittura – e in genere tutta l’antichità – riservava agli anziani che nella comunità avevano il dono di una particolare saggezza, di una presidenza capace di prendere le decisioni importanti.
Ma la Bibbia ci attesta che Dio sa anche andare per strade inconsuete. E l’elezione regale di Davide ne è un esempio. Iesse, su indicazione di Samuele, aveva convocato i suoi sette figli più grandi. Ma Samuele gli dichiarò che “il Signore non ha scelto nessuno di questi”. Restava da verificare Davide, il figlio più giovane, rimasto in campagna a pascolare le pecore.
Appena Samuele lo vide, su comando del Signore “prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi”. Dunque al Signore, dopo il fallimento del regno di Saul, non interessavano più i vecchi criteri di scelta del re e subito chiese a Samuele un deciso cambio di rotta, dicendo: “Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”.
Cioè per il suo popolo il Signore chiede che venga individuata da subito una persona dotata di profonde qualità interiori: intelligenza, generosità, buon senso. Non contano più la nobiltà dovuta alla nascita, la primogenitura o l’altezza o la bellezza. Sono ormai tutte questioni esteriori, inutili allo scopo.
E questo cambio di rotta, questa interiorizzazione dei criteri nelle scelte che contano è di una attualità disarmante, se solo si pensa a quanto un po’ tutti siamo imbambolati dentro una società attraversata dalla pseudo cultura dell’apparire. Un vero e proprio imbroglio della coscienza che, solo in forza del luccichio effimero di ciò che immediatamente appare, si lascia subito convincere, cadendo nel baratro dell’inconsistenza.
Così diventa più chiara ed evidente anche la descrizione di quanto avviene durante quell’unzione regale: “lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi”. Cioè lo spirito del Signore irrompe, vale a dire si riversa in un ragazzo. In un giovane che sino a quel momento non aveva particolari motivi di considerazione neppure da parte dei suoi familiari.
Come ci dovessimo continuamente accorgere che oggi – soprattutto oggi – abbiamo un impellente bisogno dell’audacia dei giovani. Imparando, mentre li guardiamo senza giudicarli troppo in fretta, ad aprirci al nuovo, all’inedito che semplicemente rappresentano per il solo fatto che sono giovani.
E non si tratta di piegarci al gioco di un facile giovanilismo, ma riconoscere che anche e proprio in loro lo spirito del Signore ci sta parlando. Irrompere è infatti il verbo non di chi sta seduto ad aspettare, ripetendo formule antiche e superate, sino alla noia. Irrompere è il verbo di chi sa e ancora vuole sognare.
Come già ricordava il profeta Gioele, citato poi negli Atti: “spanderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani vedranno delle visioni” (2,16-21)
E talvolta ancora si sente dire – anche nella liturgia – del “santo re Davide”. E sorge la domanda: “non dovremmo dare un altro volto alla santità?”. Il pensiero, infatti, corre alla vita tutt’altro che immacolata del re Davide. Se solo si rievoca la vicenda di Uria che il re Davide fa in modo che venga ucciso in battaglia per possederne la moglie Bersabea.
E ricordo il titolo di un libro del Card. Martini: Davide, peccatore e credente. Per dire che nel re Davide, come in ciascuno di noi, si affacciano, appuntamento inscindibile, il credente e il peccatore. Segnalando il fatto che, pur essendo credenti, non siamo mai così immacolati e, pur essendo grandi peccatori, possiamo sempre rifiorire alla grazia. Proprio come è stato per il santo re Davide.
“C’è – infatti – una cosa più importante del nostro fiorire ed è il nostro rifiorire. Che la notizia circoli tra quei feriti che noi tutti siamo; giunga a quanti hanno tentato e sbagliato; riscatti coloro che si sono perduti nei corridoi lunghi dei loro inverni” (card. José Tolentino Mendonça).
E anche a noi è continuamente affidato il ministero della cura, così che attraverso i nostri gesti e le nostre parole Gesù, il Cristo salvatore, possa continuare ad accarezzare ancora le vite ferite, nel cuore e nella carne, di tanti uomini e donne.
E come agli albori della vita della chiesa bastava l’ombra di Pietro a guarire infermi su lettucci e barelle (At 5,15), anche a noi può bastare un’ombra, una carezza lieve, un frammento, una briciola caduta dalla nostra tavola a riattivare, la corsa della grazia che diventa cura che custodisce, che sana, che salva.
don Walter Magni
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