Rito Ambrosiano – Commento al Vangelo di domenica 18 Agosto 2024 – don Walter Magni

R

XIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Anno B – Rito Ambrosiano

Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia

Lc 7,1b-10In quel tempo. Il Signore Gesù entrò in Cafarnao. Il servo di un centurione era malato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: “Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano -, perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga”. Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: “Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: “Va’!”, ed egli va; e a un altro: “Vieni!”, ed egli viene; e al mio servo: “Fa’ questo!”, ed egli lo fa”. All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: “Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!” E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito. 

Care sorelle e cari fratelli, 

nel Vangelo di domenica scorsa Gesù invitava i Dodici a non recarsi dai pagani e dai samaritani, ma  anzitutto alle “pecore perdute del popolo di Israele” (Mt 10,6), ma nel Vangelo odierno (XIII domenica dopo Pentecoste, 18 agosto 2024) si dice che un centurione pagano, “avendo udito  parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo”. 

Le città di confine 

Siamo a Cafarnao, una cittadina a Nord della Palestina. Lì, stando al Vangelo di Marco c’era  l’ufficio doganale di Levi (2,13s) e di tante piccole aziende familiari dedite alla pesca. Come quella  di Simone e di Andrea; di Giacomo e di Giovanni. E c’era pure una guarnigione di soldati,  comandata da un centurione romano, che capeggiava una centuria di circa duecento uomini,  presidiando il territorio. E ascoltando questo episodio s’intuisce che, già all’interno di un villaggio  palestinese di confine, si realizzava già la convivenza di etnie e religioni diverse.

Pur nella logica di  alcune inevitabili distinzioni e fatiche, questo finiva per favorire buone relazioni, forme nuove di  familiarità, scambi culturali e utili ritorni commerciali. Sentendosi tutti raccolti – uomini e donne,  vecchi e bambini, soldati e pescatori – sotto uno stesso cielo, dentro un unico territorio. Dentro  l’unico e provvidente sguardo del proprio dio. Troppo a lungo ci siamo illusi d’essere figli di un  cristianesimo rinchiuso dentro confini definiti e rigidi.

Già il mondo che Gesù percorreva allora e  che ancora oggi attraversa prendendoci per mano e incoraggiandoci, era fatto di città e villaggi, di  agglomerati di case e accampamenti di soldati, a custodia di confini fragili e continuamente  ridefiniti dall’imperialismo di turno. Così che a un’epoca nella quale ci si sentiva tanto distanti e  nemici per cultura e religione e quant’altro, ne poteva succedere un’altra, dove tutto diventa più  familiare, disponibile e accessibile. Persino capace di accoglienza sincera e fraternità solidale.  

Umanità che profuma di fede 

La strada che questo centurione aveva scelto per raggiungere Gesù, passa attraverso una sorta di  intercessione mediata: “gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo  servo”. Non solo quel centurione era un uomo buono capace di prendersi cura delle sorti di un  subalterno, di un servo, ma aveva pure contribuito a finanziare la costruzione della sinagoga. Gesù  stesso avrebbe avuto modo di verificare la sua finezza d’animo, la sua raffinata spiritualità. 

Quell’uomo sapeva qual era una delle qualità fondamentali del comando nel farsi obbedire e il  valore di una obbedienza sincera e pronta. Chi ha il dono di una fede autentica e che intuisce subito il valore divino di Gesù di Nazaret fiorisce da ogni dove, quando meno te lo aspetti. Nei momenti  imprevisti, mentre sei intento in qualche azione ecclesiale di rilievo e che richiede grande sforzo.

E  già mentre gli presti attenzione, senza dimenticare la tua urgenza, subito intuisci dal suo stesso  parlare discreto, una profondità, un’umanità che affascina e ti confonde. Un senso di fiducia  accordata non per disperazione, ma in ragione di un cuore capace di misericordia e di pietà, di  amore. E forse proprio in quel momento cercavi di imbastire un grande discorso, cercavi parole  ammalianti per essere più convincente. E invece di colpo qualcosa ti induce a essere più semplice  stando davanti al mistero dell’incontro di una umanità autentica con il mistero di Gesù, il Figlio di  Dio. E ti lasci affascinare come Lui, ne resti semplicemente conquistato.  

Stupirsi sempre come Gesù 

Gesù, all’udire le parole cariche di fede del centurione rimase colpito, estasiato. Dove l’umanità è  semplicemente vera e si riveste di bellezza, Dio Si commuove e risponde con parole di elogio: “Io  vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!”. Quasi avesse visto compiersi un  disegno. Come canta il salmo: “cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne  prenda cura? Eppure tu l’hai fatto solo di poco inferiore a Dio, e l’hai coronato di gloria e  d’onore” (sl 8,3-5). Ma per coglierne la profondità della fede, oltre la sua stessa appartenenza  religiosa, un uomo va guardato con occhi puri, con uno sguardo limpido.

Accogliendolo per quello  che è e che si porta dentro. Scorgendo, prima di qualsiasi differenza, le domande accorate che porta  nel cuore. Come avrebbe potuto anche Gesù riconoscere la fede grande del centurione, se non  avesse anzitutto intuito il dolore grande per quel suo servo che stava morendo? Così si riconosce lo  Spirito che sempre ci precede ci precede. Oltre le parole della retorica e di una falsa compassione  che copre le nostre paure.

Così scriveva dello Spirito santo il card. Martini: “Affidarsi allo Spirito  significa riconoscere che in tutti i settori arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi  non tocca né seminarlo, né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, seguirlo.  Anche nel buio del nostro tempo, lo Spirito c’è e non si è mai perso d’animo: al contrario sorride,  danza, penetra, investe” (Uomini e donne dello Spirito, p. 97). 

don Walter Magni