DEDICAZIONE DEL DUOMO DI MILANO CHIESA MADRE DI TUTTI I FEDELI AMBROSIANI
III Domenica di Ottobre 2024 Anno B – Rito Ambrosiano
Date gloria a Dio nel suo santuario
Giovanni 10,22-30 – In quel tempo. 22Ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. 23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
Fratelli, sorelle,
per non morire di affanno c’è bisogno a volte di saper guardare in alto. Come quando, attraversando il centro di Milano, il Duomo ti svetta davanti, bello e maestoso. Come fossi introdotto di colpo nella contemplazione dello stesso mistero che ci è dato di intravedere nella liturgia di questa domenica: Dedicazione del Duomo di Milano, Chiesa madre di tutti i fedeli ambrosiani (20 ottobre 2024).
La Dedicazione
Come si avvertisse, guardando il Duomo, la nostra cattedrale, qualcosa di nuovo che ti accende dentro il desiderio di dedicarlo di nuovo a Dio, perché senti che anzitutto quell’edificio appartiene a Dio. Così come nei secoli tanti avranno desiderato apporre, presi da un impeto del cuore, una loro dedica. Come avessero voluto confondere il loro nume o un desiderio del cuore, un amore, col nome stesso di Dio che in quel luogo si percepisce.
Come il trasudare stesso di Dio da quelle pietre che riflettono luce, da quelle stesse guglie che bevono il cielo. Perché mai, di anno in anno – da secoli ormai – la liturgia della Chiesa sente l’urgenza di continuare a dedicare il nostro Duomo? Perché si intendeva ancora poter attingere bellezza, la bellezza stessa di Dio. Difficile dire, certo, se in tutte la chiese che abbiamo dedicato a Dio respiri ancora la sua bellezza, ma il desiderio nascosto e profondo è quello. E subito il pensiero sconfina, perché l’edificio da dedicare non è solo quello di pietre. In esso, infatti,
si rispecchiano simbolicamente tante altre umane costruzioni. Tutto ciò che nella vita di un uomo si concentra nella sua edificazione complessa ed esigente. Così l’orizzonte dell’edificare si amplia a dismisura, sconfinando oltre, altrove. Primario per il nostro Dio, infatti, è il cantiere dell’anima, come anche scrive Paolo: “santo è il tempio di Dio, che siete voi”. Tanto che pure Gesù ai Giudei che chiedevano un segno, un giorno aveva detto: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Ma quelli non compresero che “parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,18-21).
“Era inverno”
E il brano di Giovanni ci ricorda che ricorreva in quei giorni la festa della dedicazione del Tempio di Gerusalemme, annotando che quelli che in quell’ora lo stavano frequentando erano come impermeabili nei confronti di Gesù. E proprio a Lui chiedevano con insistenza di dichiararSi come il Cristo di Dio per poi coglierLo in fallo. E a loro Gesù rispose: “Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me”. Era inverno, dunque, e soffiava un vento gelido. Ma più gelido era l’inverno nell’anima di quella gente.
Chiusi al vento della vita, refrattari nei confronti di Gesù, il pastore delle pecore che fa migrare verso la vita. “Voi – infatti – non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. E si può ripetere ancora il dramma della distanza refrattaria, che respinge e rifiuta Gesù Signore. Incontrare sì le pietre di un edificio dedicato a Dio, senza incontrarLo davvero.
Senza più respirare la Sua presenza, non ascoltare più la Sua voce provenire da quelle pietre che pure vorrebbe gridare il Suo nome. E uscire dal Suo tempio come si è entrati. Al punto che tanti cantieri aperti o che stiamo aprendo nelle nostre chiese, corrono il rischio di non generare che vecchie abitudini, se deserto resta, insistente, il cantiere dell’anima. Se ad ispirarci fossero altre strategie, non la verticalità svettante delle pietre del nostro Duomo che ancora ci seduce.
La Cattedrale e i suoi cantieri
Abituiamoci anche noi a chiamare cattedrale il Duomo di Milano. Dove cioè sta ben collocata la cattedra della Parola. Dove ancora è dato di ascoltare parole alte, vere. Anche la parola solenne che può venire dal gesto di quella donna del Vangelo che aveva fatto scivolare nel tesoro del tempio due spiccioli soltanto. E che Gesù mette in cattedra, innalzandola come una guglia, dicendo: “questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. (…) quanto aveva per vivere” (Mc 12,43-44). Tutto, infatti, dipende da che cosa ti ispira, da quale spirito ti conduce. E la nostra cattedrale è da sempre un cantiere, tanto che l’ente che la presiede è La Fabrica del Domm.
E proprio in questi giorni si sta approntando un imponente cantiere nella Chiesa intera. Quello di una chiesa sinodale, dove si cammina insieme. E dovrebbe camminare e più non è ferma, perché se il cantiere è fermo, allora davvero ti si stringe il cuore. Come fosse il contrario del fermento che dovrebbe abitarlo in profondo, dell’aria che in essa – la Chiesa – si dovrebbe respirare. Chiesa sinodale, dove si dovrebbe camminare insieme, dunque. E dove tutti sono chiamati ad attivarsi, non solo quelli che a lungo sono stati ritenuti gli addetti al lavoro. Impariamo ad accenderci ancora di passione per i cantieri di questa nostra Chiesa.
Consapevoli che ogni forma di ascolto chiede continua apertura, disponibilità a lasciarsi interpellare dal volto e dalla storia dell’altro. Sentendoti sicuro nella mano forte di Gesù, che a proposito delle Sue pecore ci ricorda anche oggi che: “nessuno le strapperà dalla mia mano”.
don Walter Magni