IV DOMENICA DI PASQUA
Anno B – Rito Ambrosiano – 25 aprile 2021
Ti esalto, Signore, perché mi hai liberato
LETTURA Atti 20,7-12 Alla domenica Paolo spezza il pane nella comunità di Troade. SALMO 29 (30). Ti esalto, Signore, perché mi hai liberato.
EPISTOLA 1Timoteo 4,12-16. Il dono spirituale che è in te, è stato conferito con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri.
VANGELO Giovanni 10,27-30 Il Pastore buono dà alle sue pecore la vita eterna – In quel tempo. Il Signore Gesù disse ai Giudei: 27«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
Fratelli, sorelle,
il Vangelo va letto cercando di raggiungere l’intenzione con la quale Gesù ha detto certe parole, pronunciato alcune affermazioni e raccontato le Sue parabole. In questa domenica (IV di Pasqua, 25 aprile 2021) Gesù, volendo descrivere la relazione profonda con i Suoi discepoli e la tanta gente che Lo seguiva, ci regala l’immagine di un pastore che con amore guida il gregge delle sue pecore.
Pastore di un gregge “in uscita”
Se vedi un agnellino ti prende un sentimento di tenerezza, ma al sentire parlare di gregge l’immaginario pensa a qualcosa di banale. E oggi, in tempi di pandemia ancora in corso, ‘l’immunità di gregge’ significa avere a che fare con una terapia di massa che non entusiasma molto. Un gregge è sempre un aggregato un po’ indistinto, un po’ piatto e incolore. Tanto che lo si applica volentieri alla gente che s’adatta a chi nel mercato dei media o degli alimentari grida di più e ci si accoda tutti, appunto, come pecoroni! Non era questo il gregge al quale Gesù pensava quando diceva: “le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Gli adulatori Gesù non li ha mai sopportati. Quelli che ripeterebbero sempre: “Signore, Signore”. Gesù ha piuttosto insegnato ai Suoi ad usare la testa, insieme al linguaggio di affetti sinceri. Perché, come anche dice il Signore per bocca di Isaia “i miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie” (55,8). Per questo Gesù i Suoi se li teneva stretti, liberi tuttavia di stare o di andare, senza condizioni. Perché “la vera differenza non è più oggi tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. L’importante è imparare a inquietarsi” (C.M. Martini). Forse ancora l’idea di una Chiesa compatta e raccolta potrebbe far sognare a qualcuno un passato che non tornerà più. L’essere invece “Chiesa in uscita” ci fa intuire magari un po’ di disordine e di confusione sulla soglia del recinto, ma anche tanta passione per un mondo che attende e spera.
L’odore delle pecore e il profumo di Cristo.
Va ripresa soprattutto la sequenza dei verbi usati da Gesù che parla delle Sue pecore. Queste “ascoltano” la Sua voce e solo in questo senso anche il Pastore le conosce tutte, e queste Lo seguono: “io le conosco ed esse mi seguono”. Rilettura di un’espressione più profonda, che allude a una relazione tanto intima, indicibile quasi. E questa sequenza – ascolto, conoscenza e sequela – andrà declinata ancora nelle nostre chiese. E intanto papa Francesco, riferendosi proprio a questo passaggio evangelico tanto profondo, ci ha abituati all’immagine del pastore che è tale perché si porta addosso “l’odore delle pecore” (Evangelli Gaudium, 24); “Questo vi chiedo: di essere pastori con ‘l’odore delle pecore’, pastori in mezzo al proprio gregge, e pescatori di uomini” (28.3.2013). E quello che vale per il pastore deve poi diventare un imperativo per tutte le pecore, che dovranno imparare a sentirsi avvolti dal profumo di Cristo (2Cor 2,14), come quello che a Betania si espandeva per il gesto di Maria in tutta la casa (Gv 12,4). E ricordo i miei pastori, il card. Martini, come “il pastore di Palestina che cammina davanti al gregge. Indica un orizzonte, ma nello stesso tempo non accelera oltre misura il passo, ha compassione della pecora ferita e di quella gravida. Il pensiero mi corre a un gesto, quello che fu dell’inizio, quel suo ingresso così inusuale. Camminava confuso tra la gente: non era processione, non era corteo, era cammino” (Z. Dazzi, intervista a don A. Casati. Ha amato le nostre strade e pianto su questa città, La Repubblica, 2.9.2012).
“Nessuno le strapperà dalla mia mano”
E c’è un ultimo verbo che ci introduce a una sorta di finale. Quando Gesù afferma che le Sue pecore “non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”, perché “nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Come fossimo non solo profondamente uniti tra noi, stretti a Gesù buon Pastore, ma anche saldamente trattenuti da Lui, dalla Sua stessa mano. Come Paolo quando afferma d’essere stato afferrato, “impugnato da Cristo Gesù” (3,12). Dove Dio non compie nessun atto di forza o di costrizione. Ma solo, il Pastore buono e bello, ci trattiene per quello che è: in ragione della Sua bontà e della sua bellezza. Quella che si potrebbe meglio chiamare la divina tenerezza: che è “pace, pace misericordiosa, acquietamento. Una mano dolce e materna che conosce, conforta, ripara senza trauma, rimette nel posto giusto. Uno sguardo simile a quello di una madre sul figlio che nasce. Orecchio attento e discreto che nulla spaventa, che non giudica, che sceglie sempre il buon sentiero umano dove si potrà vivere perfino l’invivibile. Essa è salda come la buona terra, su cui tutto riposa. Ci si può appoggiare su di essa, pesarci sopra senza timore (…). La divina tenerezza tutto salva, vuol salvare tutto. E non dispera di nessuno, crede che vi sia sempre una strada” (M. Bellet, teologo e filosofo francese). “E quando / scenderà / dei rischi che verranno la paura, / stringiTi in noi / e stringi noi in Te; / facci realtà santa, / realtà paziente, / realtà sicura; / e fa’ che noi / si sia / pietra di carità / che oltre morte / dura” (Pietra di carità, Giovanni Testori)
don Walter Magni