Rito Ambrosiano – Commento al Vangelo di domenica 3 Luglio 2022 – don Walter Magni

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IV DOMENICA DOPO PENTECOSTE

Anno C – Rito Ambrosiano – 3 Luglio 2022 

Sacrificio gradito al Signore  è l’amore per il fratello

VANGELO – Lettura del Vangelo secondo Matteo 5,21-24 – In quel tempo. Il Signore Gesù disse:  «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al  giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio.  Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà  destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo  fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti  con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono». 

Fratelli, sorelle,  

la parola di Dio di questa domenica (IV dopo Pentecoste, 3 luglio 2022) ci chiede di approfondire, di  non restare in superficie, di andare oltre certe ovvietà. Non basta dire: “in fondo, non ho fatto nulla  di male”; “Ma dai, cosa c’è di male?”. Nei confronti dei fratelli, di un fratello, di una sorella c’è un  dovere di dedizione dal quale non ci scolleremo mai se accettiamo di essere discepoli del Signore.  

“Sono forse il custode di mio fratello?” 

Capita ancora di sentire dire: “Non ho ucciso nessuno”, quasi fosse una dichiarazione di onestà, di  correttezza, di affidabilità. Una motivazione sufficiente, per sentirsi “a posto”. E, se anche non lo  diciamo apertamente, tuttavia forse un po’ lo pensiamo, quando non ci siamo comportati al meglio  con qualcuno e dentro ci ripetiamo con insistenza: “in fondo, non ho ucciso nessuno”. Certo,  avremmo potuto comportarci diversamente, ma non essendo capitato nulla di grave e di eclatante, a  nostro dire, finiamo per scusarci e passare ad altro. Anche Caino cercherà di discolparsi, dopo aver  ucciso Abele, rispondendo al Signore che gli chiede conto del fratello: “il Signore disse a Caino:  ‘Dov’è Abele, tuo fratello?’. Egli rispose: ‘Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?’”. 

Perché la questione si nasconde proprio dentro questa risposta evasiva di Caino: Io non sono il custode  di mio fratello! E se l’ho ucciso è perché non era di mia competenza la sua vita, non era una mia  responsabilità diretta. A nessuno può sfuggire il fatto che l’uccisione non sia per sé che l’atto estremo,  l’esito di una pulsione di distanza da un fratello che ha origini lontane. Viene da una devastazione del  pensiero e dei sentimenti. Sta in una ossessione dei pensieri e dei sentimenti che si sono abituati a una  distanza, che poi diventa risentimento, che degenera in disprezzo, odio. Ed è proprio in questo senso  che Gesù conferma il divieto di non uccidere, invitandoci a vigilare su questo territorio interiore, dove  già avviene, a detta di Gesù, la ferita mortale dell’altro. 

“Ma io vi dico” 

Gesù non abolisce la legge antica, “non uccidere” perché non ammette la superficialità con la quale  ci nascondiamo dietro la “non uccisione” dicendo: in fondo, non ho proprio ucciso nessuno. Questo  è, infatti, uno dei mali del nostro tempo: giocare con le parole, rimanendo alla superficie delle  questioni, senza approfondire, cercando di salvare la faccia dietro un’osservanza formale della legge. 

Propriamente Gesù dice: “Avete inteso che fu detto agli antichi: ‘Non ucciderai’; chi avrà ucciso  dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà  essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: ‘Stupido’, dovrà essere sottoposto al sinedrio;  e chi gli dice: ‘Pazzo’, sarà destinato al fuoco della Geènna”. Gesù ci avverte del fatto che si uccide  un fratello quando lo si ferisce dentro, a morte, definendolo “stupido”, testa vuota. Anzi, lo annulli 

e lo incenerisci umanamente, se rincari la dose chiamandolo “pazzo”, incapace di senno. Come se  staccassi la spina da lui, ripudiandolo, annientandolo. Perché per te non è più un fratello da amare, da  custodire, come già sembrava insinuare anche Caino. Forse questo è il male più profondo del nostro  tempo, tanto attraversato da un individualismo così esasperato: l’incapacità di chiamare il proprio  simile fratello, consanguineo nel corpo e nello spirito, perché siamo tutti figli di uno stesso Padre. Mi  viene alla mente il titolo di una lontana Giornata della pace, proclamata da s. Paolo VI: “Ogni uomo  è mio fratello” (1971) e anche la più recente enciclica di papa Francesco: “Fratelli tutti” (2020).  

“Va prima a riconciliarti con tuo fratello” 

Per quattro volte nel brano evangelico ritorna la parola “fratello”, accompagnato da una sorta di  legatura che dice: “tuo”, “tuo fratello”. Quasi Gesù volesse convincerci che quello è un fratello dal  quale non ti puoi smarcare. Anzi, Gesù porta all’estremo il discorso affermando che anche il culto e  tutte le pratiche religiose e celebrative devono cedere il passo al fratello, vengono dopo: “se dunque  tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia  lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo  dono”. Siamo, dunque, alla riconciliazione o anche solo al tentativo di una riconciliazione, perché  non è detto neppure che quel fratello l’accetti o la voglia davvero. Pertanto l’interrogativo di fondo,  quello che conta, chiede il coraggio di uno sguardo diretto: “Chi vedo io nell’altro?”.

Solo quando ci  sarà questo sguardo allora non sarà impossibile accogliere l’altro come un fratello e nessun pensiero  mi potrà giustificare dicendo: “tanto non l’ho mica ucciso”, dato che non sono il suo assassino.  Piuttosto mi dovrei chiedere continuamente: chi sono io per lui? Sono un fratello per lui? E l’animo  forse continuerà ad essere inquieto, anche per tutta la vita. Ciò che però importa è che non venga  meno l’esercizio, nel nome di Gesù Salvatore di essergli accanto, comunque. Ancora sperando uno  sguardo, un abbraccio che forse potrebbe non ritornare mai, certi però della giustificazione messa in  atto da Gesù crocifisso, che dall’alto della croce gridava al Padre che proprio così “tutto è compiuto”.

don Walter Magni