VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE
Anno C – Rito Ambrosiano – 31 luglio 2022
Sei tu, Signore, la guida del tuo popolo
VANGELO Matteo 22, 15-22
In quel tempo. I farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo il Signore Gesù nei suoi discorsi. Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.
Fratelli, sorelle,
a chi lo mette alla prova Gesù risponde alzando il tiro, approfittando dell’occasione per annunciare meglio il Vangelo. Come nell’episodio del tributo a Cesare raccontato in questa VIIIa domenica dopo Pentecoste (31 luglio 2022). Più che al sospetto e alla lamentela, Gesù esorta i suoi interlocutori al rispetto di chi governa, evidenziando che ciò che importa è salvaguardare il primato di Dio.
“Di chi è l’immagine?”
Cominciano a provocare i farisei che con una buona dose di retorica chiedono a Gesù: “è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Gesù non sta al gioco, non cade nel tranello: denuncia la loro malizia e, passando all’attacco chiedere di poter vedere la moneta del tributo “ed essi gli presentarono un denaro”. Ed eccolo definire i termini della questione: “’Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?’. Gli risposero: ‘Di Cesare’”. A questo infatti li voleva condurre. Come dicesse: certo, partiamo da Cesare, che per un verso odiate e per un altro vi sottomettete facendo il suo gioco.
Perché per quanto sta a me L’imperatore Cesare può anche continuare a coniare tutte le monete che vuole per rimpinzare i suoi forzieri, imprimendo il suo volto su un denaro che vi pesa addosso, vi schiavizza, vi compra e vi sottomette senza scampo. Ma proprio questo non Mi tocca minimamente. Qualsiasi Cesare di questo mondo non mi ruberà mai la libertà di riferirmi anzitutto a Dio, al Padre mio! E se anche volesse marchiare il tuo corpo con la sua immagine tu porti nel tuo cuore l’immagine di Dio. Da Lui sei stato fatto, reso vivo e libero. Tu non sei anzitutto sottomesso all’immagine di Cesare, tu ti porti dentro impressa nell’anima il volto di Dio. Questa è infatti la verità indelebile, iscritta nella vita di ogni uomo, il fatto che “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina” (Gn 1,27). Siamo improntati di Dio. Apparteniamo anzitutto al sogno che Dio ha su ciascuno di noi: Chiamati non ad essere servi, ma amici Suoi Gv 15,15).
Dare a Dio riconoscendolo Dio
In forza di questo convincimento Gesù stabilisce la Sua sentenza: “rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Due affermazioni che non vanno sovrapposte, ma neppure da intendere come parallele o consequenziali l’una all’altra. Non siamo alla logica mercantile dello scambio o della divisione dei ruoli e delle competenze. Ma alla affermazione di un primato
assoluto. Posso infatti pagare tutto quello che voglio col denaro, assolvendo alla logica dello scambio più o meno libero, dove il profitto cercherà sempre di farla da padrone. La relazione con Dio invece non conosce alcuna moneta. Viaggia e si esprime alla luce di categorie che dicono vita senza fine, gioia incontenibile, gratuità senza pretesa di ritorno, speranza oltre ogni fatica, oltre la morte. Questo sta affermando Gesù mentre dice: “rendete a Dio quello che è di Dio”. Un’espressione che, stabilendo una distinzione netta riesce a far emergere il primato di chi ne ha davvero diritto. Perché
si rende qualcosa a Dio solo riconoscendoLo: dandogli spazio, affidandosi al Padre come Gesù. On Lui, infatti, siamo stati comprati a caro prezzo (1 Cor 6,20). Ed è solo guardando a Lui che potremo imparare cosa significa dare qualcosa a Dio: riconoscendo quanto ha fatto per noi. Gesù, “pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,6-8).
Tutto è grazia
Per questo, dunque, non ci resta che imparare a ringraziare: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11,25). Colpisce un’espressione risentita di Gesù nell’episodio della guarigione dei dieci lebbrosi: “’non si è trovato nessuno che sia tornato per dare gloria a Dio tranne questo straniero? ‘E gli disse: ‘Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato’”. (Lc 17,18-19). Non solo la logica della restituzione non è scontata, ma soprattutto quella del ringraziare sembra stia diventando un esercizio raro e non scontato.
L’assolutizzazione dell’individuo, l’accentuazione esasperata dei diritti rispetto ai doveri, ci ha fatto dimenticare che siamo anzitutto figli della grazia, di una gratuità senza fine. Quel modo di vivere, quello stile che non ci mette mai di principio sopra gli altri, ma davanti a loro. Vis-à-vis con gli altri, vis-à-vis con Dio. Quando, anche passando attraverso il dolore si impara a ringraziare, intuendo, come diceva il Curato di campagna di G. Bernanos ormai morente, che “tutto è grazia!”, solo grazia. Come s’aprisse per noi uno spiraglio sul modo nel quale Dio pensa, Dio ama. Si, “rendete (…) a Dio quello che è di Dio”. Rendere grazia a Dio, facendo della vostra vita un ringraziamento infinito. Da Lui infatti ci viene il respiro, il volere e l’operare, il gioire e l’amare, i talenti che ci soddisfano, il desiderio della vita con lui per sempre. Davanti a Lui, come davanti all’uomo, non saremo mai dei pretendenti, ma dei semplici debitori, che semplicemente grati in Lui si abbandonano, fidandosi.
don Walter Magni