DOMENICA DI LAZZARO
6 aprile 2025 Anno C – Rito Ambrosiano
Lodate il Signore, invocate il suo nome
Fratelli, sorelle,
cosa sarà passato nel cuore di Gesù alla notizia della malattia di Lazzaro, nei giorni nei quali aveva deciso di restare dove Si trovava, prima di recarSi a Betania? Perché indugiare ancora? (V domenica di Quaresima, 6 aprile 2025). Forse il sentore della Sua morte s’intrecciava con quella dell’amico, desiderando anche per lui la rivincita propria dell’amore, perché più forte della morte è l’amore.
“Colui che tu ami è malato”
Il racconto della vicenda di Lazzaro è struggente. Apre spiragli su un mondo che pulsa in ognuno di noi, il mondo degli affetti. Che pulsava anche in Gesù, che aveva i Suoi sentimenti, i Suoi affetti, le Sue emozioni. Al punto che, pur trovandoci giustamente a considerare la dimensione universale del Suo amore, con quelle Sue braccia spalancate sulla croce, come volesse abbracciare tutti, si finisce per dimenticare tutti quei sentimenti, quelle umanissime vibrazioni che l’amore poteva prendere di volta in volta anche nel Suo cuore.
Perché Gesù ad esempio andava si di casa in casa, ma sapendo che non tutte erano uguali. E quella di Betania era una casa speciale, perché sapeva di pane fragrante e aveva il sapore di amicizie a lungo coltivate. E le prime righe del racconto ce lo dicono apertamente, quando notano che “un certo Lazzaro di Betània, era malato”. E non uno dei tanti, perché le sorelle, volendo informare per tempo Gesù del loro fratello malato, vanno ben oltre il suo nome. Alludendo ai dinamismi propri dell’amore, Gli dicono: “Signore, ecco, colui che tu ami è malato”. Sì, dicono proprio “colui che tu ami”, perché l’amore aggiunge nomi, raggiungendo verità Insondabili. E poi, proprio quella casa di Betania sapeva di un profumo tutto suo, particolare. Al punto che l’evangelista Giovanni all’inizio del racconto, dovendo parlare di Lazzaro, dice qualcosa anche di sua sorella Maria, “quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli”. Come non si potesse dire di quella casa di Betania senza alludere anche a quel profumo, a quei capelli.
“Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro”
E Giovanni volutamente indugia sui sentimenti di Gesù quando ci dice che anche: “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro”. Anzi, per ben due volte, insiste nel dire che dinanzi al pianto di Maria e poi dei giudei che l’accompagnano, Gesù era profondamente commosso, turbato. E che nemmeno Lui era rimasto ad occhi asciutti. Si dice proprio così: che “scoppiò in pianto”. E forse potrà sembrare un eccesso questo indugiare sul dilagare di tutti questi sentimenti in questo Vangelo. Però una sproporzione in questo episodio esiste di fatto: tra l’insieme di certi sentimenti e l’accadere del gesto
di Gesù, col quale restituisce alla vita il Suo amico. Quasi lo stesso divario che si rileva nel racconto del pianto ininterrotto di Maria di Magdala e la gioia pasquale della presenza di Gesù risorto. Quasi un invito a non usare in modo disinvolto, con chi è provato dal distacco lacerante della morte, la parola risurrezione, se prima non ho condiviso anche tutto il peso di quella sofferenza indicibile. O forse è Gesù stesso che mi sta dicendo, che se anche la morte sembra sovrastare l’incanto di certi sentimenti, lo sarà per poco. Che la morte non avrà davvero l’ultima vittoria, perché più forte della morte è l’amore (Ct 8,6-7). Tanto che a Marta ripete come un proclama: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?”. Dice proprio “Io”, bellissimo. Perché la risurrezione non è più una parola astratta, ma una persona. Così che mentre Ti guardo, già i Tuoi occhi mi regalano vita, resurrezione senza fine.
“Io sono la vita”
Non solo mi fa uscire dalle tenebre nelle quali ero finito, ma mi libera. Mi sbenda, da oggi. Sicuro che in futuro mi sbenderà dall’ultima legatura, affrancandomi definitivamente dalla morte. Come dirà anche a Lazzaro: “Liberatelo e lasciatelo andare”. E mentre Ti guardo, mi dici: “Io sono la vita”, la tua vita”. Tu, soffio dell’ in principio che mi fai respirare. E mi chiedi d’essere vita a mia volta, insegnandomi l’arte di far respirare. Non di togliere respiro. Quasi che questa fosse l’unica risposta alla crudeltà degli uomini, anche ai nostri giorni. Cura del respiro degli umani, ma anche del cosmo intero: perché respirano anche gli uccelli, come respirano gli alberi, come respira una casa. Che se crolla soffoca in sé, togliendo il respiro agli uomini.
E il nostro Dio invece – come ci ricorda il segno di Lazzaro – ha cura del tuo respiro, del mio, del respiro di tutti. La cura del respiro, dunque, perché sta scritto che questo ci ha detto Gesù: “Io sono la vita”. E desidera che non lo scordi e che me lo ripeta dentro all’infinito. Certo, io non so come avverrà l’ultimo mio passaggio. Se sarà faticoso come il Suo, ch’è morto dopo aver lanciato alto un grido. Ma di una cosa sono sicuro e non so più dubitare: che proprio i Suoi occhi in quel momento mi regaleranno il respiro, mi daranno vita. Lui, mia resurrezione, mio tutto. E in Lui tornerò a respirare, in Lui ancora vivrò cantando: Tu sei la mia vita. Come dicono i versi di una poesia: “Quando arriverà il tuo passo, / metterò una conchiglia sopra la soglia / e nell’aprirla / i frantumi volando / reciteranno il tuo nome” (Chandra Livia Candiani).
don Walter Magni